«La mafia ha paura di chi ama. L’uomo è veramente libero quando sa cosa fare della sua libertà» (Salvatore Cuffaro, Le carezze della nenia, Guerini e associati)
Una sera sono stato a cena a casa di Totò Cuffaro, il criminale. Per la giustizia italiana l’ex presidente della Regione Sicilia è colpevole di aver favorito la mafia e per questo è da quattro anni nel carcere di Rebibbia (e ancora tre ne mancano). Questo per i giudici, per il tribunale, per lo Stato. Ma per tanti siciliani – e per me, che pur ne ho avuto una conoscenza solo epidermica – Cuffaro è un innocente che sconta ingiustamente la sua pena dietro le sbarre.
Di quella cena ricordo il doppio tavolo apparecchiato (ché, uno solo, non bastava), il vino corposo e la raccomandazione – più volte espressa – di mangiare tutto, assaggiare tutto, non lasciare nulla nel piatto: tantomeno i semini dei fichi d’India, «che vengono dal mio orto, di cui sono assai orgoglioso. Hai capito, picciotto?». Capito. Quindi anche i semini? Anche i semini. Di quella cena pantagruelica e del successivo dì a scorrazzare per la Sicilia, mantengo l’impressione di una personalità esorbitante, elettrica, tarantolata. Baci, abbracci, pacche sulle spalle, “vasa vasa” e un continuo, perenne, inesausto bisogno di contaminarsi con gli altri, fossero essi commendatori o ortolani, di cui Cuffaro rivendicava orgogliosamente il contatto: «Meglio baciare tutti e dare il bacio a quello sbagliato, che non baciare nessuno», disse. Glielo hanno fatto pagare caro questo suo convincimento, ma sono certo che quei baci e quegli abbracci li rifarebbe tutti.
Dopo Il candore delle cornacchie, Cuffaro ha pubblicato un nuovo libro, Le carezze della nenia. È un libro, letteralmente, come lui stesso racconta, «scritto a mano», «mentre il carcere accorcia il mio respiro», durante notti insonni. È un taccuino di pensieri, chiose, note a margine che rispecchiano una realtà dove «si muore e si risorge ogni giorno». L’uomo che ha trascorso la sua vita libero, all’aperto, tra la gente, che preferiva il comizio al salotto tv, che percorreva ogni giorno chilometri e chilometri per visitare ogni paesino della sua regione, ora si trova costretto in un buco, all’ora d’aria, alla mensa del cibo scadente, alla conta dei rapporti umani. Al luogo dove «si porta a spasso il cadavere di se stessi».
Eppure.
Eppure quello di Cuffaro non è un libro di idee, è un libro pieno di cose. Soprattutto di fili, a volte robusti, a volte sottili, che legano e sorreggono la sua speranza, come una maglia che lo preserva dal cadere nell’orrido della disperazione. Ci sono fili di suoni che Cuffaro avverte dalla cella: bisbigli di merli, fringuelli, cornacchie, passeri, colombi, gabbiani, cardellini e, forse, «di un tacchino impettito». Ci sono i fili dei profumi delle piante e dei fiori (rose, pini, peschi, prugni, platani). Ci sono i fili del suo volto smagrito, che sono quelli che si vedono. Ma ci sono anche i fili che non si manifestano, sono quelli delle «rughe, più numerose sul cuore che sul viso». C’è il filo dell’aquilone, che Cuffaro ha costruito per volare alto oltre le mura, così che potesse, almeno lui, vedere l’orizzonte e restituirne il conforto al suo padrone. C’è il filo di cuoio con cui ha legato la medaglietta della Madonna che «non è un porta fortuna, e non la porto perché mi aspetto il miracolo. È per me il segno della protezione di mia madre e della Madonna, il segno che sono amato». Ci sono, soprattutto, i fili dei raggi di sole, forse la “cosa” che più manca a Cuffaro e di cui parla con maggior nostalgia («stanno rubando il sole alla mia pelle»).
C’è il filo che lo lega al padre, l’uomo che «mi ha insegnato il senso del Divino senza mai trascurare il senso dell’umano». Che nell’ultima telefonata gli disse che l’avrebbe fatto uscire dal carcere. È vero, ci riuscì, ma al prezzo della sua vita. Fu a causa del suo decesso, che Cuffaro poté recarsi alla tumulazione.
E, infine, ci sono i fili delle radici che non fanno appassire il fiore di una vita. «La parte più bella del fiore è quella che si mostra, di cui si può cogliere il profumo, ma non pensiamo mai che essa non si potrebbe e non sarebbe apprezzata se non ci fosse la parte nascosta, coperta, sporca». Lì, nella parte nascosta, chiusa, incarcerata, sporca come può essere una gattabuia, sta il filo che alimenta una «verità che va cercata e difesa sempre, anche quando è seppellita». Anche se è al buio. Anche se c’è solo «un minuto di sole». «Per vivere l’alba nuova – scrive Cuffaro – bisogna attraversare la notte vecchia».