Duplice premessa polemica: basta con i film sui pinguini. Ne sono stati fatti troppi e per i motivi meno nobili: i pinguini creano pochi problemi per l’animatore che ha a che fare con corpi ingessati e pelo liscio e un movimento non rapidissimo; i pinguini abitano nel gelo e nel ghiaccio, ambienti uniformi e che non richiedono una particolare cura per i dettagli. E poi, i pinguini fanno tanta tenerezza sin dai tempi de La marcia dei pinguini e coi pinguini si può fare sempre un bel discorso sull’ecologia. Però dopo i vari Surf’s Up, I pinguini di Mr Popper, il primo Happy Feet, i pinguini di Madagascar, forse è meglio finirla e passare ad altro. Secondo appunto: basta col doppiaggio affidato a personaggi televisivi o radiofonici. Nel caso di Happy Feet 2, il paragone con le voci americane fa impallidire anche lo spettatore più generoso. Oltreoceano le voci di Mambo e soci sono dei vari Elijah Wood, Robin Williams, Anthony La Paglia, Hugo Weaving, Matt Damon, Brad Pitt.
Come dire: sei su sette sono grandi attori e l’unica voce fuori dal coro è quella della popstar Pink nei panni di Gloria, la pinguina canterina. Nella versione italiana, le voci sono di Pierfrancesco Favino e Beppe Fiorello coadiuvati da due deejay come Linus e Nicola Savino, mentre per la voce di Gloria si è scelta Nathalie, la vincitrice di X-Factor 2010. Il provincialismo italiano in campo cinematografico passa anche da qui, da due deejay che ce la mettono tutta, senza riuscirci, a imitare Pitt e Damon. Purtroppo per il film di George Miller, autore del capitolo uno, già non memorabile e tempo addietro autore della saga di Interceptor con Mel Gibson, le cattive notizie non si fermano al doppiaggio italiano. Il film è nel complesso mediocre.
Da un punto di vista tecnico, il 3D non aggiunge nulla a un’animazione non complessa: i dettagli, altrove fondamentali (si pensi ai film di Miyazaki o alla solita Pixar) sono poco curati un po’ perché , come già detto, ambientare un film d’animazione tra i ghiacci e immersi nel bianco toglie un sacco di problemi di realismo, un po’ perché la popolazione dei pinguini numerosissima è tutta uguale. Il film non convince anche per lo schema narrativo, che riprende le buone intuizioni de L’era glaciale. Lo schema delle due storie che scorrono parallele – il terzetto preistorico protagonista e la vicenda con al centro il simpaticissimo Scrat – viene qui riproposto senza grossi stravolgimenti. Al posto di Scrat due krill un po’ fuori di testa, al posto del terzetto, il pinguino Mambo e il figlio Erik.
Sullo sfondo, una storia di famiglia, anche qui con più ombre che luci. Se è apprezzabile un’attenzione del padre nei confronti del figlio e se non è male l’idea di due modelli di padre a confronto (l’attrattiva che il pinguino che sa volare esercita sul piccolo Erik, la tenerezza e indecisione di Mambo nel rapportarsi col figlio), non convince il cuore del rapporto tra padre e figlio all’insegna del sentimento (le tante canzoni che sottolineano la vicenda) e all’insegna di slogan e frasi fatte, educativamente discutibili. Una su tutte: “Devi trovare in te stesso cosa fa per te, devi scoprire in te stesso la soluzione che fa per te”, è il giudizio del padre verso un figlio spesso smarrito. Altre cose che non funzionano: l’impasse narrativa dei pinguini bloccati per l’iceberg crea molti problemi quanto a ritmo e velocità dell’azione che nel primo episodio non mancava. A questi problemi Miller cerca di ovviare usando i soliti mezzi che catturano fino a un certo punto l’attenzione dello spettatore: molte canzoni, tutte doppiate, anche quelle ispirate ad arie e canzoni celebri; molti (inutili) balletti; qualche riferimento per i più grandicelli (il personaggio del playboy “caliente” Ramon), il caro vecchio datato problema del surriscaldamento del pianeta e riferimenti nemmeno troppo velati a Greenpeace. La strada intrapresa dal primo episodio, tutto centrato attorno alla diversità del protagonista, non è abbandonata del tutto tra pinguini che sanno volare e altri che sanno cantare, ma è scavalcato da altro: innanzitutto da preoccupazioni ecologiste e da un discorso sull’identità che vengono però affrontate in modo troppo semplicistico per prenderle almeno un attimo sul serio. A prevalere invece tanto sentimentalismo, brutte canzoni, parecchi tempi morti. Con il risultato che alla tenerezza e al trasporto emotivo verso il pulcino protagonista si affianca parecchia noia.