Più si avvicina il Natale, più le cronache si infittiscono di casi che scatenano dibattiti sul significato della laicità dello Stato. Si parla dell’opportunità o meno di mettere in bella vista bambinelli nei presepi scolastici, di insegnare poesie che ricordino la tradizione cristiana o di imbastire recite che evochino la nascita di Gesù. Non poteva dunque arrivare in tempi più opportuni la notifica, giunta a inizio mese, di una sentenza del 6 maggio scorso del Consiglio di Stato, che respinge il ricorso presentato da un membro della Unione atei agnostici razionalisti (Uaar), il quale si era appellato al Tar toscano contro la visita del vescovo di Grosseto nella scuola elementare della città, frequentata da suo figlio. A darne notizia è il sito dell’associazione Cultura cattolica che sottolinea l’importanza «di una sentenza destinata a fare giurisprudenza in un ambito in cui i conflitti erano continui proprio in mancanza di una disciplina chiara», sottolinea don Gabriele Mangiarotti, redattore responsabile del sito.
La sentenza entra in merito alla questione chiamando in causa «la libertà di culto e di coscienza e la funzione di servizio pubblico degli istituti scolastici». E lo fa a partire dal regolamento e dalle norme che disciplinano proprio l’autonomia delle istituzioni scolastiche. In esse si specifica che all’interno di questo ambito «gli organi collegiali (…) possono senz’altro organizzare, sulla base della programmazione delle attività didattiche e delle proposte dei singoli docenti opportunamente discusse e approvate», come nel caso di cui si stratta, «anche incontri con le autorità religiose locali». Queste, infatti, si legge sempre fra le norme che disciplinano l’autonomia delle scuole, sono «rappresentative della comunità sociale e civica con cui la scuola pubblica» non solo può, ma «è chiamata a interagire».
I giudici amministrativi con decreto del capo dello Stato hanno quindi fondato la decisione del respingimento del ricorso sulla base di norme già esistenti, che ricordano come in Italia i principi di autonomia e laicità non siano da intendersi in senso negativo (la messa al bando di ogni espressione religiosa pubblica), bensì positivo (l’inclusione di tutte). Si legge infatti: «La visita pastorale è avvenuta nelle ore di lezione (…) non attraverso il compimento di atti di culto, ma attraverso una testimonianza sui valori, religiosi e culturali, che sono alla radice della catechesi cattolica, visti in connessione con l’esperienza religiosa e sociale della comunità territoriale». Si ribadisce quindi la regolarità del confronto fra la scuola e l’espressione della cultura del territorio che la circonda e si ricorda che «analoga iniziativa potrebbe ben essere svolta con riferimento ai valori di altre confessioni religiose». Ovviamente, secondo il principio del confronto con la comunità sociale e civica, se tali valori sono «presenti nella comunità territoriale in cui agisce la scuola». E, a garanzia della forma democratica del nostro paese, a condizione che tali orientamenti «siano portatori di valori coerenti con i principi di tolleranza e rispetto delle libertà, individuali e collettive garantite dalla nostra Carta costituzionale». Non solo, la visita del vescovo, ottemperando al principio di imparzialità dell’azione amministrativa pubblica, si ricorda, «si è svolta in modo da evitare la partecipazione degli alunni e delle famiglie che non intendevano aderire all’iniziativa».
La sentenza, d’ultimo appello, arrivata direttamente da Palazzo Spada, che fa le veci della Corte costituzionale in ambito di conflitto fra i diritti dei singoli e la pubblica amministrazione, segna dunque un punto di non ritorno circa il concetto di laicità della scuola statale. Intendendola appunto come inclusiva di tutte le espressioni presenti sul territorio, nel rispetto delle libertà individuali e collettive garantite dalla Costituzione. E, per di più, sottolineando che con le espressioni del territorio la scuola pubblica non solo può, ma è «chiamata a interagire».