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La Grecia nell’euro con espansione incontrollata del pubblico impiego, pensioni baby, rinnovata spinta all’evasione fiscale non poteva stare in piedi a lungo. Ma questo pasticcio non è stato cucinato solo ad Atene: il marchingegno che ne truccava i conti pubblici era stato confezionato da una Goldman Sachs i cui ex dirigenti non mancano di avere ruoli di primo piano nelle istituzioni dell’Eurozona, le banche francesi e tedesche ne hanno sfruttato alla grande l’indiscriminata crescita della spesa pubblica, i lavori generosamente – e irresponsabilmente – eurofinanziati hanno foraggiato (dal metrò all’aeroporto fino agli armamenti) primariamente industrie franco-tedesche.
L’euroclientelismo ellenico è il figlio naturale di un’Unione che aveva perso la testa: si pensi solo alla dissennata moltiplicazione di nuove adesioni. Dopo le crisi del 2008 e del 2010, cessato lo stato di euforia, il gioco di distribuire colpe e responsabilità è insensato: la realtà è assai più complessa di quella percepita in una birreria di Monaco o in una bottega di Amburgo. Ora poi siamo di fronte a un nuovo grande passaggio nella vita dei popoli e delle istituzioni statuali europei, e questo richiede innanzitutto capacità di comprensione del processo storico e impone di non arrendersi a quella logica da contabili (tutto ciò che è reale è ragionieristico) che domina parte ampia degli establishment europei.
Uno spirito da Ballo Excelsior
In parte le vicende attuali richiamano quel che è avvenuto alla fine dell’Ottocento, quando l’evidente esaurirsi dell’equilibrio definito dal Congresso di Vienna non venne elaborato da tanta parte delle élite convinte dell’ineluttabile prevalere dello spirito da Ballo Excelsior, possedute da cieca fede positivistica e dal disprezzo per i populismi di preti di destra e socialisti di sinistra, il tutto nella profonda sicurezza e convinzione che ormai le vie del progresso fossero inarrestabili e bastasse affidarsi alla “tecnica”.
Oggi persino due geni del pensiero ragionieristico tipo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno colto come nella questione greca vi sia un elemento storico e hanno scritto sul Corriere della Sera che se Atene non fosse stata decisiva per gli assetti mediterranei e mediorientali sarebbe stato più facile organizzare una Grexit. Osservazione che per profondità ricorda la battuta milanese sul nonno che se avesse avuto le rotelle sarebbe stato un tramway.
In realtà la complessità della questione greca ha valenza storica ben più ampia della pura questione geografica: dalle differenze religiose nella cristianità europea alle tendenze di lungo periodo determinate dalla dissoluzione dell’impero ottomano con tutti i detriti prodotti da questo processo innanzitutto nei Balcani. Ed è proprio lo spessore storico dei problemi che rende fastidiosi tanti commentatori ragionieristici: per esempio sul perché ad Atene non abbiano fatto come Madrid o Lisbona o Dublino.
Le nostre radici in un algoritmo
Alla mentalità contabile sfugge come essere stati per qualche secolo una colonia inglese invece che turca produca differenze antropologiche di fondo. La gang dei ragionieri non comprende la diversità tra essere stati un impero fino all’Ottocento come Portogallo e Spagna o avere visto spegnere il proprio impero nel 1453 come è successo ai greci.
Da qui le idee di risolvere i drammi correnti con parametri tecnici invece che con soluzioni politiche, di sostituire con le banche centrali i parlamenti. Con alcuni opinionisti che, poi, nello stesso tempo sostengono come sradicare l’Europa dalle sue tradizioni apra la via all’Isis, e poi affidano queste “sacre” tradizioni a un algoritmo.
Ma ahimé quella che abbiamo di fronte non è una partita doppia in cui basta sistemare uscite ed entrate nelle giuste colonnine per assicurarsi un futuro senza problemi (anche se, certo, tenere i conti a posto aiuta): quello che stiamo vivendo è un tornante della storia. Dopo la fine della Guerra civile europea, si sono esaurite le ragioni dell’Unione Sovietica e del suo impero, un sistema che aveva un’anima essenzialmente militare, ma insieme si sono logorate alcune ragioni di fondo dell’Unione Europea, senza dubbio sistema ben altrimenti libero ed efficiente di quello sovietico, ma che contava per la sua coesione su una “paura del comunismo” che non esiste più.
Questa “paura” giustificava una certa resa a burocrazie spesso irragionevolmente invadenti, sospensioni di elementi della sovranità popolare certo non compensati dal marginale Parlamento europeo, ed era integrata dalla parziale risoluzione di una questione tedesca (cioè la centralità di una nazione che unificandosi aveva dato vita a uno Stato con un’irresistibile pulsione egemonica) che dalla seconda metà dell’Ottocento sconvolge il nostro continente.
L’anima di un’impresa che muore
Senza dubbio la Comunità europea è frutto anche dell’impegno soggettivo di grandi statisti, degli Schuman, degli Adenauer, dei De Gasperi, ma ciò che sorreggeva questo slancio ideale erano appunto la paura del comunismo, la soluzione della questione tedesca nonché il saldo rapporto atlantico irrobustito peraltro da una lunga fase di eccezionale sviluppo economico.
Ora gli antichi pilastri sono logorati. Scarsa la paura per il comunismo: dopo qualche tentativo di parziale sabotaggio anti-Syriza, un Fondo monetario ben allineato a Washington ha preferito schierarsi con “il comunista” Alexis Tsipras che con l’austera Berlino. Nell’“eurozona” (al contrario di stati dell’Unione ma extra euro come Gran Bretagna e Polonia) di un decente sviluppo gode solo la Germania. E infine la convinzione dei Mitterrand, dei Kohl e degli Andreotti secondo cui una moneta unica avrebbe portato a una Germania europea, cioè capace di assecondare i movimenti della storia del nostro continente, invece che a un’Europa tedesca, cioè un’area dominata dai dogmi, dalle paure e dagli interessi di Berlino, è ormai una scommessa perduta.
Quando gli Schulz invece che presidenti di un Parlamento sovranazionale, diventano postini delle ragioni berlinesi, quando finisce la funzione dei partiti europei e una grande forza come la Spd è più attenta ai birrai di Monaco e ai fattorini di Francoforte che a un disegno democratico per il continente, non facciamo più i conti solo con errori politici, siamo di fronte all’anima di un’impresa che muore.
Le terribili lezioni del Novecento ci hanno insegnato come anche nelle situazioni più drammatiche si debba perseguire vie riformistiche e rinunciare a slanci rivoluzionari: va cercata la faticosa via del rammendo all’interno dei processi faticosamente avviati piuttosto che quella di strappi che si sa dove iniziano ma non dove porteranno. In questo senso oggi, rimirando le crepe dell’Unione Europea messe in evidenza dalla crisi greca, è opportuno cercare vie per transitare a una “nuova situazione” senza lacerazioni (che avverrebbero per di più in un contesto globale fragile come l’attuale).
O la legge di Berlino o il caos?
Oggi siamo di fronte a un’egemonia tedesca perniciosa però riluttante, non priva di pulsioni egoistiche ma dominata innanzitutto da paure (e consapevolezza delle proprie colpe storiche): anche solo questo dato può aiutare a ridisegnare un’unità europea meno ambiziosa, più realistica e soprattutto più legittimata, uscendo dalla folle logica che o si fa come vuole Berlino o è il caos, o da quella che l’Europa non avrebbe più bisogno di politica ma solo di “soluzioni tecniche”.
Le soluzioni vanno trovate con uno sforzo culturale e di intelligenza politica, puntando su legami meno stringenti di quelli dell’eurozona (certo senza strappi che provochino crisi economiche), allargando le libertà di mercato, magari anche col Patto transatlantico perseguito dall’amministrazione Obama. Va cercata poi una legittimità democratica maggiore, magari con federalismi di tipo cantonale, tenendo conto – proprio come la Svizzera – delle divisioni etnico-religiose del nostro continente nonché del problema di contenere strutturalmente la pulsione egemonistica tedesca. C’è certamente ancora bisogno di europeismo, ma a occhi aperti e mettendo “i ragionieri” al loro (importantissimo ma limitato) posto.
Foto Ansa