
Lettere al direttore
L’ovvio conformismo di Gramellini sul suicidio assistito

Caro direttore, Tempi ha già ben spiegato l’assurda “fretta” della Toscana di concedere “serenamente” il suicidio assistito a un malato. Se vi disturbo è per capire cosa ne pensate del “caffè” di Massimo Gramellini apparso sulla prima pagina del Corriere giovedì 12 giugno (“La morte non è di parte”). Scrive Gramellini: «Ho appena saputo che il suicidio assistito è di sinistra. Assecondando la stessa logica demenziale, l’accanimento terapeutico sarebbe dunque di destra?». Il problema, lamenta il nostro, è che «abbiamo preso questa abitudine di declinare la vita in politichese, trasformando dolori privati e scelte esistenziali in un pretesto per polemiche fredde, che ignorano l’uomo in nome dell’Umanità e fingono di sventolare ideali per nascondere pregiudizi». Che brutta cosa, davvero, questo mondo che ci divide tra chi, favorevole al suicidio, è «un allegro sterminatore di anziani e malati», mentre chi è contrario è «un sadico che gode nel veder soffrire il suo prossimo». Bene, come si potrebbe porre fine a questa logica manichea sottraendola alle «polemiche di parte, ai follower e ai like, per portarla su un piano nobile e trasversale, togliendola alle fazioni e affidandola finalmente alla politica»?, si chiede Gramellini. «Ci vorrebbe un Pannella», scrive. Un Pannella?!? Cioè l’alfiere delle guerre referendarie, colui che si è battuto per l’introduzione in Italia del divorzio, dell’aborto, dell’utilizzo senza limiti degli embrioni? Quel Pannella? Tra tutti i nomi che si potevano fare, questo mi pare il più assurdo (tra l’altro, presentare Pannella come un uomo super partes, quando per tutta la vita ha parteggiato chiaramente per una “parte”, mi sembra pure offensivo per lui).
Guido Salvetti
Ma lei perché vuole farmi dire l’ovvio sul re dell’ovvio, il campione delle battaglie già vinte, l’incarnazione del giornalista unico collettivo? Gramellini è un generatore automatico di banalità, portabandiera del conformismo più telefonato, l’Enzo Biagi del 2000. Non perda tempo coi suoi “caffè”, piuttosto spenda qualche minuto del suo tempo per leggere questa lettera che ci ha inviato la nostra amica Deborah Giovanati.
***
Sono una malata di sclerosi multipla. Una malattia cronica, progressiva, logorante. Vivo ogni giorno tra terapie, fatiche fisiche, stanchezza mentale e burocrazia. Non rientro oggi tra i requisiti stabiliti dalla legge toscana per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, non sono sottoposta a un trattamento sanitario vitale, come richiesto. Ma forse – ed è inquietante anche solo pensarlo – basterebbe che mi fosse prescritto l’autocateterismo per rientrare nel quadro previsto dalla norma. E il pensiero che da quel momento nessuno potrebbe o vorrebbe fermarmi, che basterebbe una firma e un parere medico per “concedermi” la fine della vita, mi fa paura. Perché in una società che si dice civile, nessuno dovrebbe sentire di avere solo due opzioni: soffrire o morire.
Viviamo un’epoca in cui chiunque parli di diritto a morire riceve applausi da chi invoca la libertà individuale come assoluta. Ma questa non è libertà. È una scorciatoia per chi è stanco e si sente solo, travestita da diritto.
Se domani mi vedessero attaccata a un parapetto, pronta a saltare, spero ancora che qualcuno verrebbe a salvarmi. Perché si capirebbe che quello non è desiderio di morte, ma grido d’aiuto. Eppure, se scrivessi una richiesta formale per il suicidio assistito, in tanti mi direbbero che è giusto così. Che è una mia libertà. Che è dignitoso. No. Non è libertà se nessuno ti tira indietro. Non è dignità se è figlia della stanchezza, della mancanza di cure, di un sistema che ti lascia senza respiro.
La Regione Toscana ha approvato una legge per regolare l’accesso al suicidio medicalmente assistito. Ma in questa stessa Regione, le cure domiciliari palliative sono spesso carenti, la fisioterapia continua è un miraggio, e i caregiver familiari – madri, mariti, figli – vengono lasciati soli a reggere il peso. In questo contesto, non c’è libertà di scelta. C’è solo il peso dell’abbandono.
Un malato di Parkinson, per fare un esempio, costa allo Stato fino a €15.000 all’anno, tra farmaci, assistenza e indennità. Nel corso della malattia, il costo può superare i €200.000. La morte assistita, invece, non costa nulla. È questo il futuro che ci stiamo costruendo? Un sistema che trova conveniente lasciarci morire perché troppo costoso aiutarci a vivere?
La vera giustizia sociale non è permettere il suicidio. È rendere la vita sostenibile anche nella malattia. È garantirci terapie accessibili, accompagnamento, supporto psicologico, ascolto. È non farci sentire di peso. Chi oggi approva queste leggi senza rafforzare prima l’assistenza, sta legittimando un diritto alla resa, non una libertà. Perché chi è curato, amato, ascoltato – e lo dico per esperienza – non sceglie la morte. Chiede tempo. Chiede sollievo. Chiede una possibilità.
Non voglio che un giorno qualcuno mi dica: “Hai fatto bene a scegliere di morire, era il tuo diritto.” Voglio qualcuno che mi dica: “Aspetta. Vediamo come possiamo aiutarti a vivere meglio”.
Deborah Giovanati
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!