“Gli ultimi dodici giorni di Federer” sono uno strazio che non meritavamo

Di Piero Vietti
08 Luglio 2024
Il docufilm di Prime sull’addio al tennis del campione svizzero sembra un funerale in cui tutti piangono dall’inizio alla fine. Va bene la narrazione emozionale dello sport, ma così si esagera
Federer Nadal
Roger Federer e Rafa Nadal in lacrime dopo l'ultima partita giocata insieme, il 23 settembre 2022, durante la Laver Cup (foto Ansa)

Piangeva, Cristiano Ronaldo, dopo l’eliminazione del Portogallo dagli Europei in Germania, piangeva abbracciato a Pepe, 80 anni in due e il terrore certo negli occhi che sarà l’ultima volta insieme in un grande torneo. Piangeva tre anni fa Valentino Rossi quando, a 42 anni compiuti, ha detto addio alla MotoGp. Ha pianto Andy Murray, il più forte tennista britannico di sempre, quando qualche giorno fa ha detto sul campo di Wimbledon che vorrebbe continuare a giocare ma a 37 anni «non ce la faccio più fisicamente».

Piangeva a dirotto Roger Federer quando, nel settembre di due anni fa, ha detto addio al tennis a 41 anni compiuti. Piangeva dopo una sconfitta inutile alla Laver Cup, un doppio giocato con il rivale e amico di sempre Rafa Nadal su cui sono già stati spesi fiumi di inchiostro e parole, piangeva stringendo la mano proprio al tennista spagnolo, disperato anche lui (a proposito, andate a rileggere cosa scriveva Roberto Perrone su Tempi quando Roger annunciò il ritiro).

Gli ultimi dodici giorni di Federer e il senso della fine

Da quando la narrazione dello sport è diventata pura narrazione emozionale sembra che nessuno riesca più a dire “basta” senza smarrirsi e crollare in lacrime in diretta tv e streaming, trascinando in un pianto catartico milioni di appassionati in tutto il mondo. Ma non staremo esagerando? Il senso della fine, inaccettabile per gli uomini di ogni tempo, è diventato show. Il passare del tempo è stato rebrandizzato e rivenduto come unico avversario “ingiocabile” per i campioni di ogni disciplina. Se uno sportivo ci ha fatto emozionare con le sue vittorie deve per forza straziarci quando smette?

Inizia oggi a Londra la seconda settimana di Wimbledon, il torneo di tennis più affascinante del mondo che Roger Federer ha vinto otto volte in carriera. Lo svizzero è stato visto in tribuna, elegantissimo, nei giorni scorsi, e di nuovo è scesa qualche lacrima dagli occhi di chi per due decenni lo ha applaudito su quei campi. Con sapiente pianificazione, poche settimane fa Amazon Prime ha fatto uscire Federer – Gli ultimi dodici giorni, documentario che, nomen omen, mostra gli scampoli della carriera di quello che quasi unanimemente è considerato il più grande tennista di sempre. E purtroppo è uno strazio che non rende onore al campione che è stato lo svizzero.

Roger Federer Wimbledon
Roger Federer (al centro) segue la sfida tra Shapovalov e Shelton sugli spalti del campo numero 1 a Wimbledon (foto Ansa)

Pochissimo tennis, molte chiacchiere

Va bene, c’è tutta la fragilità di uno che credevamo invincibile – oramai a questo servono gli sportivi, no?, a farci sentire bene con noi stessi, a farci dire dire “anche loro sono come noi, si deprimono, sbagliano, vanno in crisi” e farci tirare un sospiro di sollievo – ma perché raccontare l’ultimo atto del migliore di tutti facendoci vedere un’ora e mezza di riprese in cui lui piange, si commuove, guarda il vuoto davanti a sé tipo Pablo Escobar nel famoso meme prima di fare il tweet in cui annuncia il ritiro, singhiozza davanti al microfono, singhiozza con la moglie, singhiozza con Nadal, singhiozza con i suoi genitori?

Pochissimo tennis, molte chiacchiere, qualche bella scena di Roger con i migliori tennisti europei di quell’anno (c’è anche Matteo Berrettini), un paio di chicche memorabili sul suo modo di giocare (come quando dice che lui giocava sui punti forti del suo avversario, e non su quelli deboli, perché se lo batti dove lui si sente sicuro lo hai distrutto psicologicamente, dice) e basta.

Perché fare il funerale a Federer?

Il resto del documentario sembra un lungo funerale con il morto ancora vivo, un raduno di amici e parenti per l’addio a un amico che ha scelto di farla finita in una clinica in Svizzera (appunto). Ci racconteranno, e già ci raccontano, che il Federer che si chiede tirando su con il naso “e adesso che non giocherò più a tennis cosa farò?” è umano, umanissimo, ma far passare uno che solo di premi vinti sul campo ha incassato 130 milioni di dollari come Fantozzi che va in pensione e non sa come occupare il suo tempo e finisce in un cinema a luci rosse di mattina è troppo.

Vorremmo ricordare Federer per i suoi colpi, non per le sue lacrime. Nell’epoca in cui la nostalgia è la droga più spacciata, e in cui il passato sotto forma di video, immagini, interviste si riversa come fiume in piena nel nostro presente asfittico, ogni campione che si ritira è “la fine di un’èra”, l’occasione per riproporci in loop ciò che è stato e non sarà più. E forse noi piangiamo il tempo che passa per Federer, Cristiano Ronaldo e Andy Murray per non piangere il tempo che passa per noi.

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