Intervista a Giuliano Ferrara Il Foglio è stato forse il solo giornale che si è messo costantemente di traverso rispetto alla cosiddetta “rivoluzione italiana”. Qual è il tuo giudizio sintetico sul passato decennio? La prima domanda cui bisogna rispondere è questa: vengono prima i magistrati d’assalto che calpestano alcuni principi universali che riguardano le libertà civili e in qualche modo anche alcuni principi del diritto positivo italiano pur di ottenere un risultato, oppure viene prima la crisi della politica? Nonostante polemicamente in questi anni abbiamo ripetuto e continuiamo a ripetere che la prima repubblica, le sue combinazioni e coalizioni di governo, la sua cultura, i suoi partiti avessero dei grandi pregi che meritano il giudizio della storia e non dei tribunali, non possiamo dimenticare che quel sistema aveva smesso sostanzialmente di funzionare. Nel senso che produceva un altissimo debito pubblico, creava un forte disagio sociale legato all’invadenza dello Stato e, attraverso i partiti, di piccole nomenclature che nel tempo diventavano oligarchie non accettate dalla società. È vero che esisteva una dialettica tra i partiti e le lobby, i cosiddetti poteri forti – anch’essi da sottoporre al giudizio della storia perché non sembri semplicemente che abbiamo vissuto in un paese di partiti predoni, mentre ci sono state molte colpe e molti protagonisti rimasti nell’ombra – ma insomma il sistema ormai produceva una forte divaricazione rispetto al modello su cui si è mossa l’Europa, il modello tedesco delle politiche di rigore di bilancio sul quale si è costruita l’Europa monetaria e sul quale storicamente si è realizzata, con il risanamento finanziario e l’abbattimento del deficit degli stati, l’integrazione europea. In questo processo storico il sistema italiano era quello che non reggeva più. I magistrati e l’invadenza del potere dei pubblici ministeri sono venuti dopo ed è stata, in un certo senso una supplenza. Una supplenza impropria che a poco a poco è diventata cultura e, addirittura, una sorta di nuova religione civile dell’intransigenza che tanto fa attrito con questa apertura nel segno dell’indulgenza e del perdono decretata da una grande istituzione universale come la Chiesa cattolica nell’anno 2000.
Insomma, l’Italia si è inciprignita in questa sequela di vendette politiche personali, di gruppo e sociali che ha avuto come catena di trasmissione le procure della Repubblica. Il nostro paese si è tuffato in questa sorta di incubo che per certi aspetti prosegue ancora, per quanto in tutt’altro clima, dove le istituzioni rappresentative ed elettive vivono sotto il costante e sistematico condizionamento, per non usare la parola ricatto, di una casta funzionaria che diventa sempre più autonoma, corporativamente autoreferenziale e che pretende, attraverso la sua alleanza al sistema dei media e dei giornali, di stendere la sua ala protettiva e redentrice sull’insieme della società. Questa funzione quasi spirituale e salvifica che si sono auto attribuiti i magistrati, alcuni con la capacità culturale raffinata di cogliere questo aspetto, altri in modo irruento e se vogliamo rozzo e grossolano, mi sembra il punto ancora irrisolto della crisi italiana. Finché non si capirà che non è possibile fare una teologia del bene morale nei tribunali, ma semplicemente sanzionare una responsabilità accertata sempre con un certo grado di fallibilità e che i tribunali sono degli agenti terreni di un tentativo di applicare una legge voluta da chi ne è la fonte, cioè la sovranità popolare, da questo incubo non se ne uscirà e rimarrà diffuso nelle coscienze del paese.