Proponiamo un armistizio: basta mostre per un anno. Casi recenti e frequenti hanno fatto trillare il campanello d’allarme. Monet a Roma è un’accozzaglia di quadri mediocri, rastrellati nei luoghi più improbabili. La Natura morta lombarda a Milano si mette in evidenza più per i quadri che mancano che per quelli che ci sono. E ora ecco l’ultimo flop della stagione: la mostra dedicata ai Giacometti alla fondazione Mazzotta di Milano. E di questa vorremmo ragionare.
I Giacometti sono una dinastia di bravi artisti, cresciuti in quel luogo strano che è la val Bergaglia: mezza Svizzera e mezza Italia, lingua nostrana e religione protestante. Una terra arcigna, lunatica, percorsa da una vena di imprevista genialità, se è vero che oltre ai Giacometti qui ha vissuto la parte più prolifica della sua vita un altro grande pittore svizzero come Varlin. Ma sui Giacometti si sarebbe potuta organizzare tutt’al più una mostra a Saint Moritz (la val Bregaglia infatti è più nota come via di passaggio verso questa mitica meta, che per se stessa), se non fosse che tra i Giacometti una volta sbocciò un genio. E questo genio si chiamava Alberto.
Se dunque la mostra sui Giacometti invece che a Saint Moritz ha potuto approdare a Milano è solo per Alberto: gli onesti Giovanni (padre), Augusto (zio), Bruno e Diego (fratelli), vivono tutti di luce riflessa e semmai pongono l’eterna e misteriosa questione di come un milieu espressivo tanto onesto quanto modesto, possa un giorno generare un astro di prima grandezza. La risposta è semplice: tra gli uni e l’altro non c’è nessun vero rapporto professionale, non fanno neppure lo stesso mestiere. Giovanni, Augusto, Bruno e Diego sono dei simpatici artigiani. Alberto è un giullare dell’assoluto. Ora, fare una mostra sui Giacometti significa innanzitutto far percepire questo balzo, questo misterioso, commovente, imprevedibile salto di categoria. Invece la mostra milanese procede in senso opposto, livellando, facendo chiudere gli occhi ai visitatori di fronte a questo abisso che un giorno si è aperto tra le montagne della val Bergaglia. Ma allora come si spiega che a un certo punto della sua vita Alberto Giacometti, proprio per sfuggire all’orizzonte dell’onesto mestiere di artista, parta per Parigi e inizi a fare cose che non c’entravano più assolutamente nulla con le cose che aveva davanti agli occhi sino al giorno prima? E perché non dire che l’importanza del grande fratello Diego sta innanzitutto nella pazienza con cui ogni sera conservava i gessi di Alberto e poi, al momento buono, ne faceva dei bronzi, prima che Alberto con le sue ossessioni finisse per superare la misura e rovinare tutto? Invece di Diego vediamo tanti simpatici e modesti mobili in ferro battuto, senza che nulla ci si dica del rapporto vero che lo legava al fratello genio. Eh no! Se dei Giacometti ci interessa qualcosa è perché tra di loro un giorno è spuntato qualcuno che con loro non c’entrava nulla. Un estraneo, un senza casa, un senza patria. Uno che nessuna legge di natura poteva mettere in preventivo. Un uomo ferito, nonostante fosse cresciuto tra tanti uomini giusti.