
Foto erotiche fra adolescenti. «Serve pudore, per preservare il mistero che non ci riduce a oggetti»
I dati pubblicati dal Daily Mail parlano chiaro: una ricerca condotta nelle scuole statunitenti mostra come sia in costante aumento l’invio di foto erotiche tra gli adolescenti americani. Sarebbero quasi un terzo le ragazze che hanno inviato a qualche amico una propria foto senza vestiti, mentre più della metà delle giovani intervistate ha dichiarato di aver ricevuto richieste di materiale di questo genere da altre persone. «Attenzione, non fraintendiamo ciò di cui stiamo parlando. Queste tendenze tra i giovani ci sono sempre state, e non vanno esasperate. Il fatto che siano in aumento è dovuto al moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione che le permettono». A parlare è Silvano Petrosino, professore di Semiotica all’Università Cattolica di Milano. «La cosa che invece pare interessante è riflettere sull’idea di pudore».
In che senso?
Bisogna intendersi chiaramente su cosa questo sia, non tutti sono d’accordo su una sua interpretazione univoca. Io penso che il pudore sia una forma di difesa da parte del soggetto di fronte ad uno sguardo che tende a ridurlo ad oggetto. C’è un esempio molto chiaro: la ragazza che si copre le gambe in metrò quando un uomo la guarda insistentemente. Perché lo fa? Vuole dire: “Io sono di più di quelle gambe, io sono di più di quanto il tuo sguardo tenda a ridurmi”. A pensarci bene quindi, nel pudore c’è qualcosa di grandioso, perché inconsapevolmente c’è un’idea di salvaguardia del mistero del soggetto. “Io non so cosa sono, però so che sono una cosa preziosa e misteriosa che non può essere ridotta all’aspetto fisico”.
Ma se allora questo pudore si sta perdendo, vuol dire che non c’è più questa paura ad essere ridotti?
Qui sì che c’entra la nostra società. In una ragazza che tende ad ostentare il proprio corpo l’adulto percepisce che c’è qualcosa che non va non per questioni morali, ma per la dignità stessa della persona. C’è dietro un disagio, legato alla concezione che una ragazzina ha di sé: non è capace di fare altro che ridursi al suo corpo. Si può fare un paragone con un miliardario, che non fa altro che parlare della sua Ferrari: la sua dignità è identificata dal possesso di quella macchina. La società di oggi che è fortemente improntata sul consumo, tende a ridurre tutto all’aspetto commercializzabile. Non c’è dietro un progetto, sia chiaro, ma è una tendenza naturale. Un seno è immediatamente commercializzabile, la misteriosa interiorità di una ragazza non lo è.
C’è un modo per rispondere a questa tendenza?
È un problema enorme, che non si può ridurre alle solo norme, o alla deontologia professionale: non possiamo credere di risolvere il problema con dei divieti, come si fa molto nelle scuole ora. Prima di tutto bisogna recuperare un’idea di uomo drammatica, misteriosa, complessa. Cioè bisogna imparare a dire ai ragazzi: “Tu sei molto di più del tuo seno, o della tua Ferrari”. La norma può andare bene nell’immediato, di fronte ad urgenza, ma non può bastare. Serve un’educazione ad avere una concezione più alta di sé.
Qualche giorno fa ha fatto notizia quanto accaduto a Firenze: due persone una sera si mettono a fare sesso tra i motorini, nel centro della città, e la gente al posto che intervenire, o chiamare la polizia, tira fuori i telefonini e si mette a scattare foto. Perché tutto questo gusto quasi morboso?
Perché l’uomo è sempre stato un voyour, e non solo il maschio. Semplicemente ora in più ci sono i mezzi per vivere quella scena, filmarla, mandarla ai tuoi amici e vivere un momento di protagonismo. È una cosa abbastanza costante, è un modo per dire “Io esisto”. La società di oggi tende a favorire questo, e a renderlo possibile tecnicamente. Quanta gente di fronte ad un uomo che soffre si mette a scattargli una foto? Ma tra chi fotografa e chi no ci sono due diverse concezioni di società: chi fotografa è come se dicesse “ora o mai più posso essere protagonista”; l’altro invece ha una concezione più ampia e più ragionevole, che afferma “Ora io lo curo”. Sono due risposte diverse alla stessa domanda: chi sono io?
Qualche settimana fa è successo un fatto simile, piccolo ma che ha fatto molto riflettere. Mi riferisco ai tanti filmati che la gente ha fatto all’attore Massimo Ceccherini, trovato ubriaco per strada. Bestemmiava, e la gente era lì col telefono in mano a riprenderlo. Cosa attrae tanto di una scena simile?
È la stessa domanda di prima: “Chi sono?” “Io sono quello che c’era, era lì”. Anzi, io sono quella foto lì. Oltretutto viviamo in una società che pretende che tu sia sempre eccellente: per essere qualcuno devi essere eccellente, ma chiaramente non riusciamo ad esserlo sempre. Come rimediare? Fotografando l’eccellenza, a maggior ragione se questa sta sbagliando. Un ubriaco qualsiasi che bestemmia fuori dalla stazione non lo filmerebbe nessuno, l’attore famoso sì. È una cosa simile a quella che mi è successa qualche tempo fa: ero in Vaticano l’ultima volta che sono stati nominati alcuni vescovi, e quando è entrato il Papa moltissime persone si sono messi a fotografarlo. È lo stesso meccanismo: di fronte al Pontefice, che è una persona esemplare, io tiro fuori il cellulare e lo fotografo. È una cosa più forte di noi: io non sono eccellente, ho davanti il Papa ed è irresistibile, anche se sono in Chiesa. Certo, non voglio mettere sullo stesso piano Benedetto XVI all’attore ubriaco, ma ciò che muove quel desiderio di fotografare è lo stesso.
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