First man. Il mistero delle stelle e il cuore dell’uomo
La cronaca degli eventi che portarono allo sbarco sulla Luna. Di Damien Chazelle
È un bel film questo First Man – Il primo uomo e non tanto e non solo per le cose un po’ banalotte che trovate scritte in questi giorni (il film classico come non se ne facevano da mo’, l’interpretazione di Gosling “misuratissima”, il racconto epico e intimo che vanno a braccetto). Il fatto è che First Man è un gran film perché fa combaciare il mistero delle stelle, dell’ignoto e dell’irraggiungibile con l’ignoto, insondabile guazzabuglio del nostro cuore. Che è poi il grande mistero oscuro con cui abbiamo a che fare ogni santo giorno, ogni santo secondo.
MAGNIFICO, SMISURATO GOSLING
Chazelle, è vero, ha un’impostazione classica per quanto riguarda racconto e lavoro sugli attori e, come direbbero i critici che ne sanno, lavora per sottrazione più che per accumulo. Spoileriamo un po’: ad Armstrong/Gosling muore la figlia e Chazelle non aggiunge nulla al dramma, alla tragedia immane. Del resto, che cosa potresti aggiungere o dire? Ci passa su con un’ellissi leggera e poi centra tutto il suo personaggio – un magnifico, smisurato Ryan Gosling – sul ricordo di lei, sulla tipica incapacità degli uomini, anche degli eroi, persino degli eroi d’azione, di esprimere dei sentimenti, di raccontare qualcosa di sé, magari ad un amico fidato, come nella bella sequenza in cui il personaggio di Jason Clarke, timido e pure lui impacciatissimo, chiede invano ad Armstrong di farsi avanti, di uscire da quelle nuvole oscure.
CAPSULE INFERNALI DI METALLO
Ecco: le nuvole, il cielo. È bizzarro che in un film che parla di Luna, di grandi imprese nello spazio, di eroi passati alla storia, il cielo si veda pochissimo e la tanto agognata Luna solo alla fine, per quanto in tutto il suo splendore. First Man è per gran parte un film claustrofobico fatto di capsule infernali di metallo, caschi che non ti fanno respirare, uomini sempre in bilico tra la vita e la morte, un po’ come succedeva nel più spettacolare Gravity. Che però parlava di vita, anzi della vita prima della vita come sottolineava il finale, splendido, in cui la Bullock tornava a una nuova vita, uscendo dall’acqua e sorreggendosi dapprima a malapena in piedi e poi con forza.
IL VUOTO CHE ABBIAMO DENTRO
Era Gravity un inno umanista alla Scienza e all’Uomo in grado di fare non tutte le cose ma parecchie. E First Man è il contrario: oscuro e cupo fino alla fine dove però il paesaggio lunare è tanto splendido quanto disabitato, vero correlativo oggettivo del vuoto che abbiamo qui dentro. Un film tutto segnato dalla morte, dai fantasmi, dallo smarrimento di fronte al dramma. Gosling, solitamente gran figaccione, qua è praticamente muto e impassibile, un biondo sbiadito alle prese con un’impresa che freddamente affronta da scienziato e una casa, sempre più piccola, da cui vorrebbe scappare, abitata da una moglie minuta e sciupata (Claire Foy, pure lei straordinaria e smisurata) che fatica a tenere i pezzi insieme.
CHI POTRÀ RISPONDERMI?
Eppure, nonostante tutto, nonostante le nuvole e la tempesta, nonostante la casa grigia e le vite spezzate, nonostante tutto, un senso c’è. Magari non un senso a tutta la sofferenza del mondo, eppure Chazelle ce lo dice: in modo laico, scientifico, cinefilo. Se sei fedele al tuo compito nel mondo, il mondo cambia: la sequenza finale si configura come una vera e propria preghiera laica davanti all’Infinito e Incommensurabile. Armstrong e la sua Domanda grande come il mondo posta nel segreto di un’altra terra, affidata nel cuore di un altro mondo. Come a dire? Ma chi davvero, quaggiù, qua su questa arida terra potrà mai rispondermi? Chi davvero potrà dire qualcosa di vero sulla morte e sulla vita? Non la moglie, non i figli, non gli amici, non il lavoro, non la gloria. Ma Qualcosa di più grande, senza confini, in grado di dare se non una risposta, almeno un po’ di pace.
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