Dovevano intervenire in diretta via telefono anche gli studenti dell’Università cattolica di Giakarta, ma come hanno spiegato nella notte via E-mail ai loro colleghi che alla Cattolica di Milano stavano organizzando l’incontro pubblico sui tragici fatti di Timor Est, l’ultimo studente che ha rilasciato un’intervista al New York Times è misteriosamente scomparso come almeno un’altra decina di giovani.
Intercettazioni sulla linea da Giakarta “Dal 23 settembre – si legge nel testo inviato dagli universitari indonesiani – gli studenti di varie organizzazioni universitarie hanno cominciato una battaglia contro la nuova legge di sicurezza dello stato. I militari ci dicono che questa legge è più democratica di quella vecchia del ’59. Ma mentono. Perché darci la scelta tra la vecchia legge e quella nuova è come chiederci se vogliamo esser sparati o accoltellati. Quindi una non scelta, che viene rigettata dal popolo. I nostri nemici sono i militari. E quindi noi chiediamo: di porre fine al doppio ruolo dei militari che hanno posti sicuri addirittura in parlamento; un tribunale per Suharto, Habibie, Wiranto e la loro cricca per l’uccisione di cittadini indonesiani; un’indagine approfondita su tutti i crimini contro l’umanità commessi in Aceh, Ambon, Timor Est, a Giakarta e in altre regioni dell’Indonesia; un nuovo governo pulito; che si ponga fine alla svendita delle ricchezze nazionali; che si ponga fine alla corruzione, alla collusione e al nepotismo. In questi giorni si costituisce il nuovo parlamento, eletto in giugno, Saremo vigili perché vogliamo che questo parlamento lavori per la vera democratizzazione del paese. Noi non vogliamo Habibie e Wiranto come prossimi presidente e vicepresidente. Ma chiunque sarà eletto presidente deve sapere che, se andrà ancora contro il popolo, riprenderemo la nostra battaglia”. E ancora: “Loro ci osservano e ci spiano. Sono morti in questi giorni due dei nostri amici. Altri sono spariti. Crediamo che ci vogliono uccidere tutti”. Il primo ottobre, annunciava l’E-mail, “ci sarà un’altra manifestazione davanti al parlamento. Non sappiamo cosa succederà. Ma siamo preparati al peggio”. Per cercare di scongiurarlo, in ogni caso, i giovani di “Ateneo studenti” che organizzavano l’incontro hanno evitato il collegamento in diretta. E in effetti, quando dalla capitale indonesiana si è collegato Johannes Von Donanhyi, si è percepito chiaramente lo scatto di un misterioso telefono che si collegava mentre la voce dell’inviato di Tempi improvvisamente si alzava.
Elezioni e giochi di potere L’Indonesia è un paese sospeso tra un passato che l’ha trasformata troppo rapidamente da mosaico coloniale a potenza regionale retta da uno spietato regime (alla sua ascesa al potere, nel ’65, si calcola che Suharto abbia lasciato sul campo circa mezzo milione di morti) e un futuro ancora incerto che passerà attraverso l’assemblea costituente che nelle prossime settimane dovrebbe portare all’elezione di un presidente finalmente eletto (Habibie è semplicemente il vice di Suharto e ne ha preso il posto quando, l’anno scorso questi si è dimesso). I principali candidati sono lo stesso Habibie, e Sukarnoputri, la figlia del defunto dittatore Sukarno che ha vinto le elezioni, ma come il suo antagonista per essere eletta ha bisogno dell’appoggio dei militari che detengono 100 seggi in parlamento. E il capo delle Forze armate Wiranto i voti li scucirà solo a chi sarà disposto ad eleggerlo vicepresidente.
Un micidiale intreccio di interessi e giochi di potere di cui, inevitabilmente, nel tentativo di trascinare i consensi dalla propria parte, la prima vittima è la libertà di stampa e di opinione. Che l’esercito abbia attivamente aiutato le milizie nei massacri di Timor Est è cosa ormai certa, ma il governo non può ammetterlo e ha gioco facile nel dipingere l’Australia come primo, se non unico, colpevole delle violenze favorendo di fatto, soprattutto ora che i soldati australiani guidano la forza di pace Onu a Timor, l’insorgere di nuovi odi e violenze.
Un popolo abbandonato da tutti (tranne la Chiesa) Violenze documentate nella straordinaria testimonianza dell’inviata di Radio Renacença di Lisbona a Dili, Annabella Gois: “Siamo bloccati a Dili perché al di fuori della capitale dove ci sono i 4.300 soldati Onu il resto dell’isola è ancora in mano alle milizie. La stessa capitale è una città fantasma dove la vita è ferma con la gente barricata in casa senza acqua e cibo. Gli stessi giornalisti devono arrangiarsi con ciò che si portano perché qui non c’è modo di rifornirsi di nulla”. D’altra parte l’hotel Makota, dove risiedevano i giornalisti è stato distrutto subito dopo l’inizio delle scorribande (“compiute sotto gli occhi compiacenti di polizia ed esercito”, conferma Annabella Gois) e i giornalisti costretti a lasciare l’isola, perciò quelli che ora sono tornati condividono, di fatto la sorte dei profughi. Senza testimoni per due settimane i timoresi sono stati in balia delle milizie che hanno distrutto e incendiato ogni cosa. “Nei momenti più terribili – racconta Rata Abecassis, caporedattore di Radio Renacença presente a coordinare i collegamenti con Dili – la gente si rifugiava nei locali della Chiesa, l’unica istituzione che è rimasta sempre a fianco del popolo (nel ’75, anno dell’invasione indonesiana i cattolici era il 30%; oggi sono oltre il 90%, ndr). A casa del vescovo di Dili, monsignor Belo, avevano trovato riparo circa 10mila persone e quando ci collegavamo durante gli attacchi sentivamo la gente cantare e recitare il rosario”.
“Per ora è impossibile fare un bilancio delle vittime tra gli 800mila abitanti – spiega ancora la Gois -, ma a Dili le forze Onu trovano cadaveri ogni giorno. Di certo si calcolano 200mila rifugiati a Timor Ovest, 100mila fuggiti sulle montagne nei pressi del comando generale della resistenza mentre molti altri sono scappati sulle montagne intorno a Dili. La cosa più urgente perciò è c he sia completato al più presto il dispiegamento delle forze Onu sul territorio: 4.300 soldati non possono bastare per un territorio che negli ultimi anni ha tenuto impiegati 20mila soldati indonesiani. E deve essere anche modificato il mandato dell’Onu: al momento, infatti, i miliziani catturati possono essere tenuti sotto custodia solo per 24 ore e poi devono essere consegnati alle autorità indonesiane che immediatamente li rilasciano. E questo certo non favorisce il ristabilimento della sicurezza”. La Gois conclude con un appello: “La comunità internazionale deve continuare ad aiutare la popolazione. Tra poche settimane incomincerà la stagione delle piogge e qui nessuno ha più un tetto. E del resto manca tutto. Oltre a Dili gli aiuti hanno raggiunto solo Baucau, la seconda città del territorio, mentre il resto dell’isola è ancora isolata”.
Anche il documento degli studenti di Giakarta si conclude con un appello: “Abbiamo un sogno: una nuova Indonesia senza violenza, un paese di giustizia, libertà, democrazia e benessere per tutti. Per questo ci battiamo. E, per favore, pregate per noi in questi giorni. Merdeka – che in Bahasa Indonesia vuol dire libertà”. Che Dio voglia concedervela.