Ferguson si ritira. A uno così, in Serie A non avrebbero nemmeno fatto mangiare il panettone
Ieri era uscita l’anticipazione del Telegraph, stamattina il Manchester United ha dato la conferma: sir Alex Ferguson metterà fine alla sua leggendaria carriera da tecnico dello United, e dopo 26 anni sulla panchina dei Red Devils ha dato annuncio del suo addio al calcio. Di seguito un ritratto del grande allenatore, uscito sulle pagine del settimanale Tempi a firma di Fred Perri.
Questo è il ritratto di un uomo, ma in fondo è anche una metafora antropologica, (un bell’attacco, eh?). Parliamo di un uomo (magari anche di due) per educarne molti, se mi seguite con attenzione. Parliamo dell’uomo che mastica furiosamente chewingum ed esulta come un ragazzino: ha 25 anni e li dimostra tutti, nel senso che è nel pieno della sua giovinezza. La sua vita sportiva è cominciata solo 25 anni fa.
Quando ne aveva 18, nel 1960, andò con il suo amico Andy Roxburgh (e altre 134.998 persone, a quei tempi si stava in piedi negli stadi) ad Hampden Park, Glasgow, a vedere la finale di Coppa dei Campioni (ah che piacere chiamarla così, è come un piatto di polenta concia a gennaio) tra Real Madrid e Eintracht di Francoforte. Pronosticò una vittoria dei tedeschi. Finì 7-3 per Puskas, Di Stefano e soci. «Eppure io li avevo visti molto bene, dovevano vincere la Coppa».
Uno così, secondo il modo di pensare dominante del nostro paese di (autoproclamati) commissari tecnici in servizio permanente effettivo, non sarebbe mai potuto diventare uno dei più grandi allenatori di calcio della storia. Forse anche perché, per lui, l’appellativo è manager, non coach. Stiamo parlando di sir Alex Chapman Ferguson, 70 anni, figlio di Alexander Beaton Ferguson, manovale in un cantiere navale, protestante, e di Elizabeth Hardie, cattolica, che trasmise la religione al figlio. Alex è cresciuto nel sobborgo di Govan, Glasgow; ha avuto problemi con la scuola facendosi bocciare anche alle elementari, ma ha sempre posseduto una grande forza di volontà e così ha studiato di notte, mentre lavorava come apprendista, fino a prendere il diploma.
Molti anni sono passati da allora e il ragazzo che faceva a pugni con i libri è diventato uno dei più grandi tecnici del mondo e soprattutto dei più longevi. Malgrado il suo mestiere sia traballante per natura, il suo posto di lavoro non è in discussione dal 1986: il 6 novembre ha festeggiato 25 anni sulla panchina (che poi non è una panchina perché in Premier League le squadre occupano le prime file della tribuna e non per il lungo) del Manchester United. Quando venne ingaggiato dai Red Devils, gli dissero che il suo compito era quello di «prendere a calci nel sedere» gli odiati rossi (Reds) del Liverpool. Era un po’ come se fosse diventato il capo di una gang di periferia con la voglia di mettere paura ai fighetti del centro che ti guardano sempre dall’alto in basso. Sir Alex lo ha fatto, ma la sua passione era la Coppa dei Campioni, fin da quel lontano giorno in cui sbagliò, e di tanto, il pronostico della finale di Hampden Park. Ne ha giocate quattro e ne ha vinte due. Sarebbero state quattro, ma sulla sua strada, dal 2009 in poi, è finito il Barcellona fantascientifico di Guardiola e Messi.
Una gita fuori porta
Molti non sanno, però, che alla base della grande epopea che ha portato sir Alex nella leggenda e tra i membri, con la qualifica di comandante, dell’Ordine dell’Impero Britannico (Cbe), ci fu proprio una gita a Barcellona. Andarono lui e il leggendario Bobby Charlton per riportare a casa Mark Hughes. Fecero un giro attorno al monumentale Nou Camp, videro le attrezzature, i campi di allenamento, le «facilities», come si dice a Londra, il sistema Barça e Bobby commentò: «Questo è dove dovremmo essere ma non siamo, pensa a diventare il Barcellona».
E proprio al Nou Camp, nel 1999, sir Alex ha chiuso il cerchio conquistando la sua prima Champions League, in una finale incredibile con il Bayern Monaco, una partita che era persa all’89esimo e vinta al 91esimo. Quella sera, a Barcellona, e forse anche il giorno delle sue nozze d’argento con lo United, sir Alex non ha pensato al passato, ma solo al presente e al futuro. Sir Alex non fa mai i conti, non tiene aggiornato il curriculum come il suo amico-nemico Mourinho. Anche perché con 37 trofei nella sua bacheca, non è semplice fare i conti. Senza contare gli inizi scozzesi (tutt’altro che trascurabili: 3 campionati, 4 Coppe di Scozia, la Coppa delle Coppe 1982-1983) sir Alex ha trasformato il Manchester United, che i ragazzini che oggi si bevono la Premier non lo sanno, ma trent’anni fa era considerata la periferia di Liverpool, nel club più organizzato, più forte, più famoso, più «vendibile» del mondo, più del Barcellona che non ha ancora la continuità di presenza sui mercati più importanti, specialmente su quello asiatico. Ha gestito i giocatori più diversi, è sopravvissuto all’addio di tanti campioni, da Cantona a Beckham, da Ronaldo a Tevez. Ha lanciato giovani, ha trasmesso il suo elisir di lunga vita a Ryan Giggs, a Paul Scholes.
Con sir Alex sono arrivate 12 Premier League, 5 Coppe d’Inghilterra, 5 Coppe di Lega, 2 Champions, 1 Coppa delle Coppe, 2 Coppe Intercontinentali. Sir Alex viene, vede, vince e mastica. Non ha nessuna intenzione di smettere. Ogni tanto preannuncia il ritiro. Se ne doveva andare alla fine del 2001-2002, figuriamoci. L’ultima volta che aveva accennato alla pensione, aveva giurato che il 2011 sarebbe stato l’anno del Grande Addio. Poi, però, quando si avvicina alla scadenza annunciata, cambia idea, ci ripensa, ovviamente con leggerezza, facendo finta di niente. Ha appena rinnovato il suo contratto. «Vado avanti finché la salute me lo consente». In realtà, siccome nel 2011 è stato prima asfaltato in finale di Champions da Guardiola a Wembley, e poi eliminato dal torneo 2011-2012 addirittura dagli svizzeri del Basilea, non avrebbe mai appeso la gomma da masticare al chiodo senza aver almeno riprovato a vincere la Coppa dalle grandi orecchie.
Ecco, questo è il punto, la differenza, l’erba del vicino sempre più verde. Perché per resistere su una panchina non bastano i successi, c’è tutto un sistema, una mentalità, una cultura da mettere in moto. Perché non esistono solo i risultati a fare da discriminante. C’è, ad esempio, il fattore umano. Sir Alex non ha un carattere facile. Ha litigato con tanti colleghi, che considera più o meno alla sua altezza, da Arsène Wenger a Rafa Benitez. Ha emesso giudizi sprezzanti su questo è quello. Ha mandato a quel paese più di un giocatore e, perfino con il suo pupillo David Beckham ha avuto dei problemi tanto che, nel 2003, durante una discussione ha scagliato una scarpa nello spogliatoio e lo ha colpito in faccia. Qualche mese dopo il giocatore simbolo del calcio inglese, passava al Real Madrid. Agli arbitri ne ha dette di tutti i colori. Ha preso multe e bacchettate, l’Uefa lo ha punito perché una volta ha affermato che i calendari della Champions erano compilati per favorire le squadre italiane e spagnole. Ha fatto causa a un tale per questioni di cavalli (una delle sue grandi passioni). Ha messo il muso alla Bbc per un documentario «non autorizzato». Insomma è un tipo bello tosto, sir Alex, eppure ha resistito 25 anni nello stesso posto e non è che appena arrivato, nel 1986, abbia subito raccolto un trionfo sull’altro. La Coppa d’Inghilterra è arrivata nel 1990, la prima Premier League nel 1993.
Il riconoscimento alla carriera
Ecco ora la domanda suprema. Ma questo splendido personaggio, questo appassionato di cavalli e di buoni vini – se volete farlo felice e assicurarvi la sua simpatia presentatevi con una bottiglia di Sassicaia – sarebbe durato così tanto nel campionato italiano? Lo so, la risposta è facile, da primo turno di quiz televisivo, quando anche i somari sembrano degli Einstein. «In serie A nessuno gli avrebbe fatto concludere sei stagioni senza conquistare un campionato», ha detto Sandro Mazzola nelle celebrazioni del baronetto scozzese sulla rivista ufficiale dell’Uefa. Recentemente Sepp Blatter, un altro immarcescibile – anche lui minaccia di ritirarsi nel 2014, dopo i Mondiali del Brasile, ma c’è da credergli? – gli ha consegnato, all’interno della festa per il Pallone d’Oro, il riconoscimento «presidenziale» alla carriera.
Se invece di nascere a Glasgow il 31 dicembre 1941 fosse nato a Viareggio, la patria di un allenatore italiano che stima molto, Marcello Lippi, sarebbe durato pochissimo, non solo in una squadra, ma anche in generale. Sir Alex da noi avrebbe fatto la fine di un Colomba qualsiasi, di un Mangia, di un Ficcadenti, carne da macello nelle mani dei Zamparini, dei Cellino. Meno male che è nato scozzese e lavora in Inghilterra, non ce lo saremmo goduto se fosse nato italiano. Sir Alex Ferguson è un modo di capirci, di comprenderci e, se volessimo, di migliorarci. Perché il nostro calcio non ha successo, non vende come gli altri? Anche nel momento d’oro, anche negli anni da bere della riapertura delle frontiere pallonare, negli Ottanta, abbiamo avuto i migliori calciatori ma non siamo stati capaci di dare continuità al nostro movimento e siamo diventati periferici.
È colpa nostra, del nostro modo vorace/volgare di vedere il calcio, della nostra allegria di linciaggi. Viviamo in una bolla dove si consuma tutto in fretta. È così per ogni aspetto della nostra vita sociale, il calcio in testa. Nella stagione 2011-2012 in Serie A sono saltate 11 panchine (per nove squadre: Zamparini e Cellino hanno abbondato, due a testa). In Serie B addirittura 14. In Premier League? Sparate un numero. No, meno. Due, quelle del Sunderland e quella del Qpr. È un modo diverso di vivere il calcio, quello inglese. Lassù sir Alex non è l’unico esempio di longevità, il suo amico-rivale Arsène Wenger ha appena festeggiato i 15 anni di Arsenal, mentre David Moyes ha raggiunto 10 anni sulla panchina dell’Everton.
Ma come è possibile una cosa del genere? Con un progetto, con un programma, con la figura dell’allenatore-manager, un po’ dirigente, un po’ tecnico. E soprattutto con esoneri e licenziamenti «mirati», non frutto solo del vizio assurdo dei presidenti di essere padri-padroni, ma basati su analisi a medio termine, almeno. Insomma, ci si domanda seriamente: cambiando, cambieremmo veramente qualcosa? Quasi sempre si arriva allo stesso punto. Non è che non si cambi, ma c’è l’idea che non lo si faccia così come da noi, per un 6-1 a Napoli come ha fatto Preziosi con Malesani.
Come l’Udinese
Arsenio Wenger, un personaggio intrigante, da meriggio montaliano, parla tre quattro lingue e di sicuro capisce l’italiano (ma come tanti francesi fa l’indiano e finge di non intendere), adesso, dopo 15 anni e un periodo forse eccessivo (per l’Arsenal) senza vittorie (dal 2005), comincia ad avere qualche bordata di critiche e molti tifosi dei Gunners l’hanno fischiato. Ma lui non fa una piega, rivendica la sua origine contadina, che sa di solidità e choucroute e tira dritto. Ex giocatore di basket, ciclista improvvisato, portiere di calcio senza storia, questo alsaziano magro e pallido è il contraltare di sir Alex. Con l’Arsenal fa quello che i Pozzo fanno con l’Udinese. Attira giovani, li cura, li difende se non cominciano come dei treni (da noi oltre a non farli giocare, se sbagliano la prima partita li massacriamo e non si riprendono più), poi li rivende. Ha incassato 60 milioni di sterline dalle cessioni di Fabregas e Nasri e, di fronte al malumore popolare, ha risposto affidando la guida della squadra a Van Persie. L’olandesino, che sembra uscito dalla pubblicità di Pattini d’argento, gli ha segnato 17 gol in campionato. L’Arsenal, dopo un avvio stentato, si è ripreso e viaggia, tra alti e bassi, a portata di Champions League. A proposito, Arsenio, a differenza di sir Alex, è ancora in lizza nella Coppa che conta.
In Italia, con quattro punti in quattro gare, avrebbe fatto la fine di Gasperini. La metafora vi è chiara, compagni e amici?
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1 commento
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negli ultimi 25 anni le squadre italiane hanno vinto 6 coppe campioni e comunque lui continuava a parlare male degli italiani, avendone conosciuti due o tre, forse, confermando tutti gli stereotipi inglesi.