
Fate il katsuo, non la guerra

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sarà capitato a tutti, al ristorante giapponese, di trovare posati in cima a una verdura in umido, ad esempio sulle melanzane, alcuni leggerissimi trucioli di un colore rosa traslucido, talmente sottili che il vapore sembra dar loro vita. Da italiani, il nome di questo condimento può causare qualche problema. Basti pensare che i giapponesi infatti, in modo affettuoso, lo chiamano okaka. La definizione esatta poi, è katsuo-bushi, ed essendo la pronuncia esatta “càzzuo”, forse in una cena romantica sarà meglio chiamarle “scaglie di palamita del Pacifico”, o al limite bonito, senza doversi arrendere alla definizione inglese “skipjack tuna”.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Per fargli assumere quella forma quasi eterea, il katsuo-bushi bisogna piallarlo, perché viene essiccato e trattato in modo tale da diventare duro come un pezzo di legno. Anche se oggi è facile trovarlo in bustine già pronte, in ogni dispensa giapponese che si rispetti dovrebbe nascondersi uno strano strumento che somiglia appunto a una pialla, con sotto il suo bravo cassettino di legno dove andare a raccogliere i preziosi trucioli di pesce secco.
Il katsuo-bushi è alla base di un’infinità di piatti, e ciò a causa della sua funzione fondamentale: insieme all’alga kombu dà il sapore giusto al dashi, il misterioso brodo che troviamo nella stragrande maggioranza delle ricette giapponesi. Produrlo alla maniera tradizionale non è facile. Della palamita vengono utilizzati solo i filetti, e ci vuole poi quasi un mese ad affumicarli, utilizzando legno di quercia o di castagno. Ogni giorno devono restare esposti al fumo per la mattinata, e poi lasciati a riposare. Il passaggio finale, che a seconda della qualità del prodotto può anche durare oltre un anno, è la fermentazione, con una speciale muffa che finisce per assorbire dalla polpa ogni sua ultima particella di umidità. Il risultato è una specie di salsicciotto di un colore marroncino polveroso, duro come un pezzo di teak, ma il cui interno, una volta che si inizia a piallare, ha un meraviglioso colore rosso scuro, simile al porfido.
Il katsuo-bushi è una di quelle cose squisite che non hanno minimamente subìto, alla fine dell’Ottocento, gli effetti della restaurazione Meiji e della conseguente – in gran parte superficiale – occidentalizzazione del Giappone. Anzi, trattandosi di un prodotto ad alto valore aggiunto, c’è da credere che in quel periodo fabbricare katsuo-bushi potesse fruttare discretamente. Almeno questo deve aver pensato l’imprenditore giapponese Tatsushiro Koga, quando nel 1895 presentò domanda al governo per stabilire nelle isole Senkaku – un gruppo di quattro isolette che si trovano a meno di 200 chilometri da Okinawa – quella che poi sarebbe diventata la sua manifattura di katsuo-bushi.

Koga, che era originario del Kyushu, aveva navigato per la prima volta al largo delle Senkaku nel 1884, iniziando poi a sfruttarle per la raccolta di conchiglie preziose e per le piume di albatross, che allora venivano utilizzate per i cappelli delle signore. La richiesta che Koga aveva fatto già allora al governatore di Okinawa, aveva coinciso con una serie di ricerche e sopralluoghi effettuati dalle autorità nipponiche sulle isole Senkaku. Ci si informava sulla loro flora, la fauna, il loro potenziale per la pesca e altre caratteristiche. Una volta appurato che le isole fossero disabitate, e accertato che nessuna rivendicazione per il loro dominio fosse presente da parte di altri stati, il governo giapponese pose dei cippi di pietra su Uotsuri, Kuba, e le due piccole Kita-Kojima e Minami-Kojima, annettendole tutte e quattro come “terra nullius”, secondo la legislazione internazionale del tempo.
Moli, strade, case e acqua potabile
Fu così che finalmente nel 1895 Tatsushiro Koga ottenne la sua autorizzazione, e iniziò subito a trasferire dozzine di lavoratori sulle due isole più grandi, Uotsuri e Kuba. Si trattava di porre le basi per un’attività di pesca e produzione del bonito essiccato, continuando nel frattempo il commercio di piume e conchiglie. Le condizioni di vita erano durissime. Con mezzi scarsi e spartani, Koga doveva garantire la sicurezza e la salute della sua piccola comunità, rifornirla di cibo e acqua potabile. Trattandosi di isole vulcaniche dalle coste frastagliate, nei primi anni non vi era nemmeno un punto in cui far attraccare le imbarcazioni, anche di medie dimensioni. Tutti i trasporti di merci e materiale avvenivano con le navi in rada, utilizzando per il trasbordo delle semplici canoe. Facendosi forte della curiosità che le caratteristiche naturali delle isole riuscivano ad accendere in tanti studiosi dell’epoca, Koga riuscì allora a coinvolgere la prestigiosa Università di Tokyo, da cui ottenne un piano di sviluppo che oggigiorno definiremmo “sostenibile”, con soluzioni per quei tempi modernissime. In pochi anni Tatsushiro Koga, uno che non si perdeva mai d’animo, era riuscito e costruire dei moli per l’attracco, banchine, cisterne per l’acqua potabile, strade, case per gli operai.
Dopo dieci anni, possedeva tre imbarcazioni per la pesca del bonito, e sulle due isole maggiori i campi coltivati raggiungevano i 60 ettari, con 99 abitazioni e 248 residenti occupati nelle attività più disparate, inclusa la tassidermia, perché Koga aveva pensato di importare sulle isole trentamila piantine di canfora da Taiwan, che avevano attecchito con successo. Quindi adesso gli abitanti delle Senkaku si dedicavano anche alla cattura, all’imbalsamazione e alla spedizione a Kobe e Yokohama di varie specie di uccelli, un mercato che evidentemente a quei tempi avrà avuto un suo qualche interesse, che oggi risulta difficile comprendere. Ci si dedicava poi alla pesca del corallo, si raccoglieva il fosforo dal guano, e naturalmente, prima di tutto, si fabbricavano grandi quantità di delizioso katsuo-bushi.
L’abbandono e l’occupazione
Quando Tatsushiro Koga, decorato dall’Imperatore con la medaglia d’onore, morì nel 1918, lasciò tutta l’attività a suo figlio Zenji, il quale continuò con successo a svilupparla, ottenendo nel 1932 di potere acquistare la proprietà delle isole Senkaku. Ma tutto ha una fine. Nel 1940, l’intensificarsi del secondo conflitto sino-giapponese fece sì che l’invio di petrolio e carburante alle isole venne interrotto. Insieme ai Koga, tutte le famiglie che per 45 anni avevano costruito la loro vita su quelle isole così distanti, furono costrette ad abbandonarle. Dopo la guerra, le isole Senkaku rimasero disabitate.

Il Trattato di San Francisco le pose sotto l’amministrazione degli Stati Uniti come parte di Okinawa, e nel 1972 furono incluse nel trattato di restituzione di Okinawa tra Stati Uniti e Giappone. Ma per il destino dei quattro isolotti, nel Giappone che ormai era ripartito mancava un Tatsushiro Koga disposto a ricominciare. In realtà c’è da chiedersi cosa avrebbe potuto ritrovare della sua impresa coraggiosa, forse i moli per l’attracco, le banchine, le cisterne per l’acqua piovana. Difficile dirlo, anche perché durante il periodo di amministrazione americana, le isole vennero utilizzate dalla marina degli Stati Uniti come naturali poligoni di tiro al bersaglio per l’artiglieria navale.
Incroci pericolosi
Ora purtroppo, complice la possibilità che nella zona circostante esistano grandi riserve di petrolio, le Senkaku si trovano al centro di una controversia internazionale che inquina i rapporti nella regione. A rivendicarle è la Cina, come parte del proprio territorio. Di questi tempi capita spesso che le navi della guardia costiera giapponese che pattugliano le acque al largo delle isole Senkaku incrocino navi governative cinesi.
È un pensiero ozioso, ma tutto sommato chissà come sarebbe stato diverso adesso, se una volta restituite dagli americani ci fosse tornato qualcuno, su quelle isole. Qualcuno capace di sognare e di partire, come fece Tatsushiro Koga, riuscendo a coinvolgere con sé tanti uomini e donne coraggiosi, disposti ad affrontare una vita diversa in un posto così lontano eppure pieno di meraviglie. Come sarebbero andate le cose, se stasera, navigando sottocosta accanto all’isola di Uotsuri, invece di confrontarsi solo con quella grande ombra nera, vi si potessero scorgere delle piccole luci, e si potesse sentire, portato dalla brezza, il profumo del brodo di palamita affumicata. In fondo la storia la fanno gli uomini. Anzi, il pesce secco.
Foto Ansa
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