Il summit delle Coree:
troppo bello per essere vero.
“Avevamo visto giusto”, ha gongolato Lamberto Dini all’indomani dello storico vertice fra i leader delle due Coree a Pyongyang del 14 giugno scorso. L’Italia infatti, insieme all’Australia, è l’unico paese occidentale che ha deciso, alla fine dello scorso anno, lo scambio degli ambasciatori col regime-dinosauro della Corea del Nord: una sorta di comunismo dinastico frutto di una ferocissima guerra (due milioni e mezzo di morti) combattuta cinquant’anni fa da coreani, americani, cinesi e russi. Dinastico perché in esso il potere si tramanda di padre in figlio: Kim Jong Il, attuale capo assoluto della Corea del Nord, era stato designato sin dal 1972 a succedere al padre Kim Il Sung, morto nel 1994 dopo aver battuto ogni record mondiale moderno di permanenza al potere: 56 anni ininterrotti a far data dal 9 settembre 1948. Fino a quel momento i paesi occidentali si erano limitati ad avere rapporti normali con l’altra Corea, quella del Sud, che dopo quasi quarant’anni di regimi autoritari e militari filo-americani ha imboccato la via della democrazia con un referendum costituzionale nel 1987, fino a eleggere presidente un oppositore storico come Kim Dae Jung. A condividere l’ottimismo di Dini (che si fa bello con le penne del pavone: a mandare in avanscoperta Roma e qualche altra capitale sono stati, verosimilmente, gli stessi Stati Uniti che mezzo secolo fa guidarono la spedizione contro la Corea comunista e che sono ancora militarmente presenti nel Sud con 37mila uomini) sono però in pochi.
“Cade l’ultimo muro”, dicono i russi (che se ne intendono).
Gli unici ottimisti a tutto tondo paiono essere i russi. Sulla Izvestia del 15 giugno, già settimanale sovietico di punta al tempo di Stalin, il massimo responsabile del massacro di mezzo secolo fa, leggiamo sotto il titolo “Una crepa nel grande muro coreano”: “In qualsiasi modo si concluda, il summit intercoreano entrerà nella storia come l’inizio della demolizione dell’ultimo muro politico sul pianeta… Anche soltanto per la simbolica stretta di mano dei capi di Stato, che formalmente si trovano tuttora in stato di guerra, valeva la pena di organizzare questo incontro. Ma esso è risultato più dinamico e concreto di quanto si supponeva. L’ostilità e la diffidenza non si dissipano con un incontro, ma, come si dice in Occidente, chi ben incomincia è a metà dell’opera”.
“Ma quanto a concretezza stiamo a zero”, dicono a Parigi.
Più prudenti i commenti su Le Monde: “L’accordo lascia scettici per il suo carattere piuttosto vago. “Una volta di più sono stati enumerati i ‘dieci comandamenti’ della riunificazione”, dice un giornalista coreano, alludendo ai due precedenti accordi di riconciliazione del 1972 e del 1992 che non si sono mai concretizzati. D’altra parte per la prima volta l’accordo è firmato dai più alti dirigenti dei due paesi… tuttavia manca di impegni concreti e le modalità d’applicazione dei grandi princìpi enunciati restano da definire”.
Obiettano The Economist:
“E’ solo una strategia del Nord per sopravvivere”.
Altra voce europea perplessa è quella dell’Economist: “La Corea del Sud deve procedere con prudenza. La Corea del Nord può non essere interessata ad una reale riconciliazione, ma a strappare quante più concessioni economiche può e poi riprendere le ostilità. Se le cose stessero così, non avrebbe senso per la Corea del Sud costruire strade e ponti nel Nord, soltanto per vederli usare per trasportare più carri armati e truppe al militarizzatissimo confine. Fino ad oggi la Corea del Nord è specializzata nel provocare crisi e poi chiedere una compensazione per abbassare i toni”. Insomma, con uno come Kim Jong Il, che veste alla maoista 25 anni dopo la morte di Mao, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio.