

A una settimana dall’incontro con i rappresentanti di Svezia e Finlandia per discutere il percorso di adesione alla Nato e in concomitanza con l’annuncio della ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche con Israele dopo 12 anni, la Turchia sta tastando il terreno per verificare la fattibilità di una nuova operazione nei territori a maggioranza curda del nordest della Siria.
Tra il 16 e il 17 agosto l’aviazione turca ha colpito una postazione dell’esercito di Damasco nei pressi di Kobani, provocando 17 morti, e l’artiglieria pesante avrebbe bombardato la città di al Darbasiyah in quello che appare un preludio ad un’operazione su più vasta scala per realizzare la zona di sicurezza profonda 30 chilometri più volte richiesta dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Una nuova operazione turca avrebbe serie conseguenze come esplicitamente affermato dai presidenti iraniano e russo, Ebrahim Raisi e Vladimir Putin, negli incontri con Erdogan del 18 luglio a Teheran e del 5 agosto a Sochi.
I fatti di questi giorni mostrano però che Erdogan sarebbe intenzionato a portare avanti il progetto, ribadito con forza lo scorso 8 agosto dal presidente turco al termine della 13ma Conferenza degli ambasciatori ad Ankara. L’obiettivo è appunto quello di realizzare una fascia “libera” profonda 30 chilometri che si snoda per 400 chilometri partendo a est del fiume Eufrate e concludendosi al confine con l’Iraq con al suo interno le città siriane di Jarabulus (già sotto controllo turco) Manbij, Kobani, Tal Abyad, Suluk, Ras al Ayn, Darbasiyah, Amude, Qamishli e al Malikiyah. L’obiettivo della Turchia è quello di trasferire nella zona di sicurezza i circa 3 milioni di profughi siriani ormai da quasi dieci anni residenti in territorio turco. Il trasferimento di massa dei profughi siriani è uno degli obiettivi elettorali di Erdogan intenzionato a portare casa la presidenza alle elezioni del giugno 2023.
A differenza delle altre tre operazioni condotte in territorio siriano a partire dal 2016, l’operazione del 2022 rischia di portare allo scontro – e anzi ha già portato allo scontro – le Forze armate turche (quindi militari Nato) con quelle del regime di Bashar al Assad, con conseguenze difficilmente prevedibili in una regione che più di altre sta subendo i rivolgimenti della guerra in Ucraina.
La sera del 16 agosto un attacco aereo turco contro un posto di frontiera siriano gestito dalle forze del regime di Assad a ovest della città nordoccidentale di Kobani ha provocato 11 morti e 6 feriti, molti militari dell’esercito siriano, ufficialmente tre secondo l’agenzia di stampa governativa siriana Sana, ma potrebbero essere molti di più. Hawar News, l’agenzia di stampa per le aree semiautonome curde in Siria, ha riferito che 16 soldati siriani sono stati uccisi, mentre un’altra agenzia di stampa curda, North Press Agency, ha affermato che 22 soldati sono stati uccisi. Le forze curde hanno risposto agli attacchi lanciati dall’artiglieria turca e dalle forze ribelli filo-turche dell’Esercito libero siriano con colpi di mortaio che hanno ucciso due militari di stanza sul confine nei pressi della città di Sanliurfa.
I territori non orientali della Siria sono molto cambiati dal settembre 2019 quando Erdogan all’Assemblea generale dell’Onu presentò ufficialmente il “programma” per risolvere una volta per tutte il problema dei curdi e dei profughi siriani. Le forze governative siriane hanno rafforzato la loro presenza nelle aree sotto il controllo delle Forze democratiche siriane (Fds), le milizie curdo-arabe alleate degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato islamico che controllano, soprattutto tramite del Unità di protezione del popolo (Ypg), gran parte di quello che dai curdi di Siria viene denominato Rojava e che si considera una regione semiautonoma.
Le Sdf hanno combattuto contro le forze di Damasco appoggiate da Russia e Iran in questi anni per il controllo delle provincie orientali ricche di petrolio di Al Hasaka e Deir ez-Zor. Tuttavia, dal giugno scorso i curdi e le forze di Assad hanno raggiunto un accordo per respingere in caso di attacco le Forze armate turche. A partire da luglio Damasco ha dispiegato avamposti nelle regioni di confine vicino alla città curda di Kobani e alla periferia di Manbij come parte di un piano per chiudere tutti i fronti di combattimento.
Le azioni condotte in questi giorni mostrano la volontà della Turchia di tastare il terreno e lanciare un segnale alla galassia di milizie arabe e turcomanne alleate di Ankara. Non è un caso che gli attacchi e il trasferimento di forze turche nelle zone al confine con la Siria sia avvenuto dopo le rare proteste contro la Turchia che hanno portato in piazza migliaia di persone nelle principali città del nord della Siria controllate dalle forze armate turche, tra cui Azaz, Al Bab e Afrin. A scendere in piazza anche gli abitanti della provincia di Idlib, controllata da Hayat Tahrir al-Sham, l’ex ramo siriano di Al Qaeda, e altri gruppi ribelli.
A scatenare la protesta sono state le dichiarazioni del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, rese nella conferenza stampa al termine della Conferenza degli ambasciatori di Ankara. In quell’occasione, il ministro degli Esteri turco ha aperto alla possibilità di una riconciliazione con Assad, che avrebbe l’obiettivo sottointeso di consentire ad Ankara di sradicare i curdi nel nordest della Siria, eliminare la presenza statunitense, e consentire il ritorno dei profughi. «Dobbiamo in qualche modo convincere l’opposizione e il regime a riconciliarsi in Siria. Altrimenti non ci sarà una pace duratura, lo diciamo sempre», ha dichiarato Cavusoglu, che ha smentito l’ipotesi di un incontro tra Erdogan e Assad, come richiesto dal presidente russo Vladimir Putin, ammettendo però di aver avuto un fugace colloquio con il ministro degli Esteri siriano, con Faisal Mekdad, avvenuto lo scorso ottobre 2021 a Belgrado a margine della riunione del Movimento dei paesi non allineati.
Foto Ansa
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