
Crescerà l’astensionismo, ma la colpa è mia

Crescerà l’astensionismo. Lo ripetono i sondaggisti, gli analisti politici, i giornalisti, lo dice anche mia madre che ha 85 anni e mi confessa che non andrà più a votare, dopo un ventennio passato a barcamenarsi per ritrovare nella scheda il simbolo della Dc.
Non si vota più, non per quel populismo che fatichiamo oramai a distinguere, tra l’altro e il basso delle sue altitudini, e neppure per i cosiddetti ribaltoni che una democrazia parlamentare è ben capace di sopportare, al pari delle indicazioni del “premier”, figura anglosassone che non esiste nel nostro impianto costituente, se non come farlocca interpretazione dei manifesti elettorali.
Alle elezioni come fossimo nel Novecento
È la costituzione materiale, bellezza mi si potrebbe obiettare. Eppure, la disaffezione non è affare di questi giorni, non è la risultante di una serie di sciagurate decisioni tutte interne alla politique politicienne. La realtà è che noi continuiamo a scrivere, a seguire le maratone televisive, a studiare la possibile composizione parlamentare scaturigine di una legge elettorale madre dell’ingovernabilità, come se vivessimo ancora nel Novecento.
Facciamo spesso finta di non accorgerci che non esistono più le masse popolari, che il ceto medio-borghese è poco più di un proletariato senza figli, che gli enti intermedi, le sedi di partito, le scuole di formazione politica, sono evaporati gradualmente ma irreversibilmente con la fine della Prima Repubblica. Abbiamo bravi pubblicisti che vendono il “prodotto”, lo incarnano, vivendolo in prima persona, ma la verità è che noi siamo una nicchia narcisa e presuntuosa, ingolfata da pseudo intellettuali, senza più la capacità di incidere sulla realtà. E alla fine, il giorno dopo le elezioni, ci accorgiamo che non abbiamo capito nulla.
Mi rifiuto di dire “sinistra” e chiamare “politica” l’evoluzione di Di Maio
Non lo diciamo perché siamo bravi a trovare spiegazioni che stanno fuori da noi, altrove. Un colpevole siamo sempre bravi ad individuarlo. Siamo capaci di dire che la politica è morta. In quel campo erede del movimento operaio, non si è mai stati capaci di celebrare il funerale. E senza sepoltura, non esiste elaborazione del lutto.
Io, che giungo da quella storia, mi rifiuto persino di pronunciare la parola “sinistra” perché essa non è un soggetto ma solo una locuzione avverbiale. Non posso chiamare politica l’evoluzione acrobatica di Giggino Di Maio, che, come primo lavoro, ha fatto il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico e come secondo il ministro degli Esteri. “Neppure le salamelle avrebbero fatto ai miei tempi”, direbbe un D’Alema antipatico e iracondo.
Dal sogno della rivoluzione alla società dell’indifferenziato
Eppure, nello sberleffo, come in un Grande Fratello televisivo, fa quasi simpatia cotanta capacità di fuoriuscire dalle secche di un lavoro precario al vecchio San Paolo di Napoli. Simpatia non affezione. Ciò che è crollato non è solo la grande idea della scalata al cielo o di una rivoluzione liberale, di un riformismo socialista, o di una degna trasposizione della dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Ciò che è venuto meno è quella tensione affettiva che creava simboli, senza i quali siamo destinati ad una società dell’indifferenziato.
Abbiamo guardato mentre il popolo si trasformava in moltitudine e poi ancora in una serie di monadi isolate protese al proprio soddisfacimento o alla propria disillusione. Quel corpo claudicante ma fiero, si è dissolto dentro la gente, termine così neutrale che è capace di annientare la concezione stessa di persona. La verità è che alla fine del lamento non rimane neppure più il pianto. Di questa squallida rappresentazione priva di appartenenza, di un nucleo centrale da salvaguardare, di una idea vera che non si trasformi immediatamente in una ideologia prêt-à-porter con i giorni di scadenza, alla stregua di un prodotto di consumo, siamo responsabili tutti noi.
Astensionismo, la colpa è mia
La colpa è mia, mi verrebbe da dire. Sono reo, colpevole, delittuoso, incapace di spiegare a mia madre che si deve votare. Lei che per tutta la metà del Novecento ha percepito il voto come un diritto e un dovere a cui non ci si poteva sottrarre pena la disdicevole ed immorale onta della diserzione. Dobbiamo usare la prima persona singolare, per riconoscerci in un “noi”, ma è uno sforzo antimoderno, che costa fatica, produce scandalo. Ci vuole pazienza ed una premessa al singolare: la colpa è mia.
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