Ecco perché abbiamo ancora bisogno dei giornali di carta

Di Rodolfo Casadei
29 Agosto 2018
Noi possiamo guarire la comunicazione solo se al centro mettiamo l’ascolto e la distanza. Fattori che vengono completamente annullati dal digitale

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Pubblichiamo l’intervento che il giornalista di Tempi Rodolfo Casadei ha tenuto il 23 agosto al Meeting di Rimini per gli studenti dell’Università salesiana della comunicazione nell’ambito della conferenza: “Giornalismo e carta stampata: relitti del passato o nuova giovinezza?”.
Che la carta stampata sia in agonia, è cosa sotto gli occhi di tutti, che non ha bisogno di particolari dimostrazioni e sottolineature. Il crollo delle vendite dei quotidiani cartacei, solo in parte compensato dagli abbonamenti online ai siti internet degli stessi, è un dato consolidato.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Su questo aspetto io mi limito a un’osservazione personale. Vivo a Milano da 32 anni, e da 32 anni mi reco al lavoro usando i mezzi pubblici, e prevalentemente la metropolitana. Trenta o venti anni fa quando entravo nel vagone della metropolitana vedevo sempre una decina di persone che avevano fra le mani un giornale aperto. Negli ultimi anni, quando prendo la Metropolitana non vedo quasi più nessuno che stia leggendo un giornale. Vedo molta gente appiccicata al suo cellulare, intenta a guardare qualcosa, a scrivere qualcosa, a leggere qualcosa. Vedo qualche tablet. Vedo qualcuno che legge libri. La presenza del cartaceo nei vagoni della metropolitana milanese ormai è limitata a qualche libro. Ma i giornali sono quasi scomparsi. Dunque è prevedibile che nei prossimi anni si arrivi alla virtuale estinzione della carta stampata. Resteranno i periodici glamour, le pubblicazioni ad alto tasso artistico, basate sugli exploit grafici e sulla bellezza di immagini che hanno bisogno del supporto cartaceo per esprimere il meglio dell’arte fotografica. I quotidiani cartacei spariranno, e forse anche i settimanali.
E tuttavia quella dei giornali cartacei e della loro permanenza anche nell’era digitale è una missione per la quale vale la pena spendere la propria vita professionale. Salvare e promuovere la carta stampata è una vera e propria missione di civiltà, un atto di amore per il prossimo, una questione di igiene mentale, è una giusta battaglia culturale e antropologica. Cercherò di spiegare brevemente perché. E lo spiegherò dal punto di vista non solo del giornalista della carta stampata, ma dal punto di vista del giornalista inviato. Da vent’anni sono l’inviato internazionale del settimanale, ora mensile Tempi, e prima di allora ho fatto una decina di reportage africani per Mondo e Missione, che era la rivista del Pime di Milano. Sono stato e sono tuttora un inviato artigiano, nel senso che non ho mai avuto l’inquadramento contrattuale e la retribuzione dell’inviato, ma di fatto sono un inviato: fra il 1987 ed oggi ho realizzato reportage in 50 paesi e territori del mondo. Senza la retribuzione e senza la copertura assicurativa dell’inviato contrattualizzato come tale ho fatto reportage in Siria, Iraq, Darfur, Nigeria, Ruanda al tempo del genocidio, Sudafrica al tempo dell’apartheid, Uganda durante l’epidemia di Ebola, Afghanistan, eccetera eccetera. Ad Aleppo, a Mosul, al Cairo al tempo della Primavera araba, ecc.
Io scrivo anche sui media digitali. Ho un blog che va avanti da una decina di anni sul sito internet tempi.it. Ma queste esperienze di inviato e la più generale attività di giornalista per un settimanale della carta stampata hanno forgiato in me una precisa convinzione: occorre combattere l’egemonia e infine la dittatura del digitale perché la dittatura del digitale è funzionale alla dittatura dell’Uguale e all’espulsione dell’Altro dall’orizzonte del mondo. La dittatura del digitale ci impedisce di fare l’esperienza dell’incontro, che è sempre anche uno scontro, con l’Altro. Senza la relazione con l’Altro, il soggetto che siamo scompare. Noi siamo noi stessi solo nel rapporto con l’altro da noi; senza l’alterità non si forma la nostra identità, non si fa esperienza del sé, non possiamo dire “io”. La comunicazione virtuale tende al narcisismo e all’esclusione dell’Altro, tende all’omologazione universale, tende all’affermazione dell’io narcisista, dell’io che si specchia nella sua propria immagine, e fa la fine del Ritratto di Dorian Grey, perché è un io senza sé e senza tu. La comunicazione digitale tende all’alienazione. Mentre invece la carta stampata e i suoi giornalisti inviati salvaguardano e promuovono la relazione con l’Altro, riaffermano l’Altro come Altro irriducibile a noi. E adesso cerco di motivare queste mie asserzioni.
Un giornale si sfoglia, un supporto digitale si digita. Digitale indica una comunicazione basata sul codice binario di un sistema numerico. In inglese cifra si dice “digit”. Ma in italiano il gioco di parole è perfetto: all’informazione digitale si accede senza usare l’intera mano, ma semplicemente pigiando con le dita dei tasti. Sembra una differenza da niente, e invece è una differenza fondamentale. Il giornale è un oggetto che ci sta di fronte, che ci oppone resistenza. Richiede l’uso del pollice opponibile della nostra mano per essere sfogliato, richiede cioè l’uso di ciò che fa della mano una mano umana. Lo schermo della comunicazione digitale oppone una resistenza minima: basta premere con un dito, o strisciare con un dito, e il passaggio dall’intenzione della volontà alla realizzazione della volontà è istantaneo. Lo schermo nutre l’illusione che la realtà risponde senza mediazioni alla nostra volontà, al nostro desiderio. Si nutre l’illusione che la realtà sia il prodotto di un atto della nostra mente, come nella filosofia idealista. Un giornale ci rimanda immediatamente all’alterità, ci fa uscire da noi stessi; uno schermo e la sua tastiera ci danno l’illusione che siamo noi a creare la realtà, che la realtà nasca da noi.
Nel suo libro Nello sciame – Visioni del digitale il pensatore tedesco-sudcoreano Byung-Chul Han espone il pensiero del filosofo Vilém Flusser sulle nuove tecnologie: «L’uomo, con i suoi dispositivi digitali, vive già oggi la “vita immateriale” di domani. Non dovrà più maneggiare e lavorare nulla, perché non avrà più a che fare con cose materiali ma solo con informazioni immateriali. Tipica della nuova “vita immateriale” è l’”atrofia delle mani”: i dispositivi digitali lasciano che le mani si atrofizzino. La liberazione dal peso della materia implica che l’uomo del futuro non avrà più bisogno delle mani. Al posto delle mani subentrano le dita: invece di agire, l’uomo nuovo gioca con le dita. (…) L’uomo del futuro, “che gioca con le dita, senza le mani”, l’homo digitalis, NON agisce. L’atrofia delle mani lo rende incapace di agire». Non agisce in senso proprio, cioè nel senso di intervenire sulla realtà affrontando la sua resistenza, la sua opposizione, per piegare la quale occorre conoscere le leggi della realtà, cioè le leggi della fisica, della chimica, della biologia, ecc. O almeno essere buoni osservatori dei fenomeni, come lo è un contadino o lo è un artigiano, che lavorano fruttuosamente con le loro mani come se conoscessero le leggi delle cose. Invece quando noi premiamo dei tasti, non siamo noi che agiamo, la nostra azione è stata configurata da altri, che hanno piegato la resistenza del reale, l’alterità del reale, e noi semplicemente soddisfiamo le nostre pulsioni. Soddisfiamo le nostre pulsioni pigiando dei pulsanti. Pigiamo dei pulsanti, e otteniamo i risultati che desideriamo. Ma questo non è agire: noi fruiamo dell’agire altrui, di chi ha usato le proprie mani per le fasi di lavorazione dei nostri apparati.
Per la grande maggioranza delle persone tutto questo è positivo, perché è comodo. Ma io sono fra quei pochi che vedono le conseguenze negative. Che conseguenze negative ci sono? Ci sono conseguenze negative sia a livello politico che a livello esistenziale. A livello politico, perché l’homo digitalis si abitua a non mettere in discussione gli assetti della realtà: non fa le cose, le usa. Quindi di fatto l’homo digitalis collabora col sistema, non mette in discussione il sistema. Han lo dice così, con un linguaggio hegeliano e neomarxista: «Tanto la manipolazione quanto la lavorazione presuppongono una resistenza: l’azione deve superare una resistenza. Essa (la resistenza – ndr) contrappone l’Altro, il Nuovo, a ciò che è dominante: in essa è insita una negazione. Il suo pro è contemporaneamente un contro. L’odierna società positiva, invece, evita tutte le forme oppositive e così elimina le azioni. In essa dominano unicamente diversi stati dell’Uguale».
Le conseguenze negative a livello esistenziale, stanno nel fatto che la nostra esperienza diretta della realtà si impoverisce. Perdere l’abilità delle mani non significa semplicemente fare meno, significa essere meno. Significa fare un’esperienza dell’Essere più povera. E questo riguarda anche lo scrivere. Scrivere a mano è importantissimo, se la scrittura con tastiera elimina completamente la scrittura a mano, siamo al disastro, siamo al naufragio esistenziale. Lo scriveva già Martin Heidegger tre lustri fa: «La macchina per scrivere occulta l’essenza dello scrivere e della scrittura. Essa sottrae all’uomo la dignità essenziale della mano, senza che egli faccia convenientemente esperienza di tale sottrazione e riconosca che qui è già mutato il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo». Heidegger diceva questo delle macchine da scrivere: figuriamoci cosa scriverebbe oggi dei computer, dei cellulari e dei tablet! Per Heidegger, la mano è la mediazione che ci mette in rapporto con l’Essere, quindi col senso e con la verità. I dispositivi a tastiera ci allontanano dall’Essere.
In tutto questo, in questo scontro di civiltà, che ruolo può svolgere il giornalista inviato? In che cosa può essere utile? Beh, anzitutto per agganciarmi a quanto appena detto, l’inviato è un giornalista che continua anche oggi a prendere i suoi appunti a mano. Almeno, io lavoro così. I miei appunti sono manoscritti. E consiglio anche a voi di fare lo stesso. E se non volete cadere nella tentazione di prendere gli appunti direttamente su di un supporto digitale elettronico, come vedo fare spesso, fate come ho fatto io: andate a fare i vostri reportage in luoghi remoti, dove c’è una guerra, dove ci sono stati terremoti o alluvioni, dove l’elettricità scarseggia, dove è normale andare in giro coi taccuini e i bloc notes. Se volete fare i fighi portatevi dietro un paio di Moleskine, così potete atteggiarvi a novelli Hemingway. Ma insomma scrivete a mano non dico gli articoli, ma gli appunti sì. Farà bene ai vostri circuiti neuronali, ve lo garantisco.
Un’altra caratteristica anti-digitale dell’inviato, è che l’inviato è uno che va: si muove, parte, fa un lungo viaggio, e arriva a destinazione a volte dopo molte difficoltà. Viene da lontano, va lontano e arriva lontano. La comunicazione digitale annulla la distanza fra le cose, crea un mondo virtuale dove tutto è contemporaneamente presente nello stesso luogo. Invece l’inviato, proprio perché viene inviato da un luogo a un altro, conferma l’esistenza della distanza fra le cose. Perché questo è importante? Perché senza distanza non c’è rispetto! Il rispetto per la realtà ha bisogno della distanza! Tutte le cose sacre stanno di là da una soglia, sono separate da noi da uno spazio piccolo o grande. Se la vita umana deve continuare ad essere considerata sacra, non tutte le distanze devono essere annullate. Ci vuole qualcuno che sia custode della distanza, e il giornalista inviato è uno di questi custodi. Senza distanza non c’è più il rapporto con l’Altro; se non c’è la distanza, tutto coincide, tutto collassa, non c’è l’io e non c’è il tu. Scriveva Martin Buber che «l’invocazione dell’Altro come Tu presuppone una “distanza originaria”». «Ma la comunicazione digitale è concepita proprio per annullare ogni distanza. Attraverso i media digitali cerchiamo oggi di avvicinare l’Altro quanto più possibile. (Ma) in tal modo non abbiamo più a che fare con l’Altro, lo facciamo piuttosto scomparire».
Anche in un altro senso, più prosaico e immediato, la comunicazione digitale paradossalmente annulla la distanza e allo stesso tempo annulla il rapporto con l’Altro. Io mi procuro informazioni in rete, e così non devo rivolgermi a un interlocutore personale. Non mi reco sul posto, non interrogo la gente. Non vado io dalle informazioni, faccio venire le informazioni da me. Così succede che la comunicazione digitale mi mette in rete, ma contemporaneamente mi isola. Annulla la distanza, ma non genera vicinanza reale. Invece il modo di lavorare dell’inviato è esattamente il contrario: io so già che c’è la guerra in Siria, mi arrivano informazioni, magari attraverso la rete. Ma vado in Siria per verificare le notizie, perché so che l’affidabilità delle notizie di una guerra è condizionata dalla fonte della notizia: ci sono due parti che si combattono. Per avere un’informazione affidabile serve un osservatore terzo, che racconta la storia dal punto di vista di uno che non è parte in causa nella guerra.
Il giornalista inviato è il mediatore della distanza, è colui che avvicina il lontano senza annientare la distanza. Nelle cose sacre il mediatore della distanza è il sacerdote, nella comunicazione il mediatore della distanza è il giornalista. In questo senso il giornalista è il sacerdote della comunicazione, e in quanto tale si scontra con la cultura della comunicazione digitale, che non riconosce sacerdoti, non riconosce mediatori. Leggo ancora da Nello sciame – Visioni del digitale: «I media digitali (…) come i blog, Twitter o Facebook de-medializzano la comunicazione. Oggi la società dell’opinione e dell’informazione si fonda su questa comunicazione de-medializzata: ciascuno produce e diffonde informazioni. La de-medializzazione della comunicazione fa sì che i giornalisti – questi rappresentanti un tempo privilegiati, questi opinion makers e sacerdoti dell’opinione – appaiono del tutto superflui e anacronistici. Il medium digitale abolisce ogni casta sacerdotale: (…). Oggi ciascuno vuole essere direttamente presente e presentare la propria opinione senza alcuna intermediazione. (…). Per redigere notizie accertate, i giornalisti mettono in gioco persino la loro vita. Al contrario, la de-medializzazione porta in molti ambiti a una massificazione: lingua e cultura si appiattiscono».
L’ultimo tema che introduco è quello dell’ascolto. Nel mondo della comunicazione de-medializzata, dove in nome della interattività i lettori si sono abituati a intervenire sugli articoli dei giornalisti in maniera reattiva, dove dire la propria è diventato più importante che approfondire i contenuti dell’articolo che si legge, il giornalista ha un grande compito, una grande sfida: quella di rieducare all’ascolto. E per rieducare il pubblico all’ascolto, deve essere lui a dare il buon esempio. Quando mi metto in ascolto, io metto in primo piano l’altro, e metto in secondo piano me. Faccio il contrario di quello che fa la comunicazione digitale, dove tutti gridano, dove tutti vogliono mettersi in evidenza, tutti vogliono avere l’ultima parola. Ma noi possiamo guarire la comunicazione solo se al centro mettiamo l’ascolto.

@RodolfoCasadei


Foto Ansa

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