Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Parlando ai bambini romani Jorge Mario Bergoglio ha provato a spiegare perché si è ritrovato ad essere papa Francesco: «Il Sacro Collegio non ha eletto il più colto e intelligente dei cardinali, ma quello che lo Spirito Santo ha ritenuto adeguato alla nostra epoca». È un’affermazione che meno progressista e più tradizionale non poteva essere data. Dimostra una fiducia totale nella Provvidenza. Anche Karol Wojtyla era certo di un disegno più grande di lui e che lo riguardava. Aveva la consapevolezza di essere Pietro, proprio lui, polacco, mentre tutto il mondo si sfibrava, le ideologie venivano frantumate, anche con il suo contributo che lui peraltro ha trattato con una certa ironia. Sostenne che il comunismo era franato su se stesso, lo disse a Praga nell’aprile del 1990, e quando pareva iniziare un’epoca senza muri, secondo le tesi ingenue e sfrontate di Francis Fukuyama, disse che andava abbattuto un altro muro: quello della povertà tra il Nord e il Sud del mondo. Senza paura. Perché senza paura? Rispose: perché Cristo è redentore dell’uomo e della storia.
Uomo & Storia. Non è forse vero che Francesco ha raccolto questo testimone? Anzi, fedele nel mio piccolissimo al metodo usato da Ratzinger per dire la verità su Gesù di Nazaret nei tre volumi che sono stati il centro del suo pontificato, io credo che la vicenda di quel Mistero che è la Chiesa (Karl Barth, luterano!) vada letta da dentro la fede che la Chiesa professa. Non ragionando in astratto sulle simpatie ideologiche e politiche di Bergoglio (esse esistono, francamente io fatico a sopportarle), ma sul fuoco che lo anima. Non è una passione per un progetto sociale, una volontà di scardinamento di certe strutture oggettive di peccato, ma il desiderio di comunicare a ogni uomo, alla povertà di ciascuno (con una predilezione per i “dannati della terra”, certo) che Gesù Cristo è la risposta al bisogno del cuore dell’uomo adesso, proprio ora.
E se Giovanni Paolo II è stato il martello contro le ideologie in nome della verità, così che l’uomo spogliato di falsi miti potesse aprire le porte a Cristo, Francesco, nella liquefazione in cui gli uomini e le donne annegano disperati, come nel Mediterraneo gli emigranti, si tuffa, rischiando anch’egli di annegare, di lasciarsi mordere dai pescecani, pur di offrire il salvagente (in senso forte ed etimologico: Salus Nostra o Maria in manu tua est) della misericordia. Da qui a volte – io credo – quello che Romano Amerio, il massimo teologo tradizionalista, chiamerebbe circiterismo, una ambiguità linguistica, una certa apparente noncuranza della dottrina consolidata.
È un po’ paradossale quello che tra un istante scriverò, e imploro la pia interpretatio. Così come Wojtyla chiese scusa 23 volte, per le più disparate presunte colpe della Chiesa e dei papi (anche per le crociate, per lo schiavismo), e lo faceva anche quando i documenti storici in un processo l’avrebbero assolta, pur tuttavia si abbassava sinceramente, quasi per non lasciare alibi, per suprema umiltà, come fra Cristoforo che pure aveva agito per legittima difesa di un amico, così allo stesso modo Francesco osa quasi chiedere scusa per la dottrina. Non perché voglia stravolgerla, ma perché essa è diventata come il legno della croce in mano a certuni che lo picchiano sulla testa dei fedeli.
Certo, Cristo ha detto «Doctrina mea non est mea, sed eius qui misit me, Patris» (Gv 7,16). Lo disse papa Wojtyla sull’aereo che andava in Cile. Gli avevo domandato perché mai tutti volessero incontrarlo, ascoltare una sua parola. Ed egli si schermì così. Io non parlo da me stesso, ripeto la dottrina del Padre. Ed essa non muta. Ma guai se invece di essere viva grazie allo sguardo dei santi che vedono cose inesplorate nella Trinità (secondo un corso di pensiero che va dal cardinale Newman al cardinale Von Balthasar) essa si cristallizza. E invece di essere il magma incandescente e divino-umano della misericordia che si fa presenza e afferra tutti, trasforma il cristianesimo in una morale. La misericordia esige pazienza.
Uno degli autori preferiti da Bergoglio, in un libro da lui amatissimo, scrive: «Fede, speranza e pazienza: ecco le nostre armi!» (Robert H. Benson, Il padrone del mondo). La pazienza. Pazienza verso noi stessi, che vorremmo sempre un papa che somigli al nostro temperamento, ai nostri programmi su di lui in funzione della nostra idea di ciò che sarebbe necessario… E pazienza del papa verso chi fatica ad accettare di essere trascurato, come capita a me, essendo io del ceto medio, non essendo sudamericano, non amando particolarmente i descamisados e propenso a scandalizzarmi quando sento certe frasi del nuovo preposito generale dei gesuiti, il “papa nero”.
Scendo di qualche gradino, rispetto a Benson. E trovo accanto a me l’amico Umberto Bossi, il quale a suo tempo se ne uscì con una frase simile a quella del Papa, esposta in esordio di articolo. Al momento dell’elezione di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, disse: «La Chiesa non sbaglia mai nella scelta di un papa». Notoriamente Bossi non è un teologo, salvo che non ci abbia nascosto qualcosa, non è mai stato in seminario. Io sono certo che parlava di sé, di come i due papi siano stati decisivi nel suo cammino personale per il rischiarare il senso della sua stessa vita. E ho provato, prima che a osservare il mondo per verificare in che senso fosse vero rispetto al pianeta e alla galassia, perché fosse giusto per me (e forse per te che leggi).
Chi ha dei “dubia” porti pazienza
Il cardinale Angelo Scola, che è passato nelle cronache del Conclave come l’avversario per eccellenza di Bergoglio, ha detto di lui: «Ha una grande fede… il Papa pone l’accento su aspetti che noi forse eravamo abituati ad affrontare con una modalità un po’ più seduta, un po’ più borghese». Per me è proprio così. Quando ho incontrato don Giussani ho trovato pace, una pace inquieta certo. Ma ho avvertito, ho visto, ho sperimentato lo spalancarsi del mio orizzonte: non c’era più distanza tra l’infinito e il cristianesimo, che fino ad allora avevo vissuto come una prigione morale. Ero stato chiamato per nome. Era il contrario del galantomismo borghese o del gregariato cristiano alla rivoluzione marxista. Cambiavano i contorni della speranza: non era più il successo, il sistemarsi, magari avendo un posto in vista nel mondo nuovo guevarista. La speranza era che la certezza di Gesù tra noi avrebbe colorato il futuro mio e di ogni persona cara o non ancora cara. Dei dogmi sapevo molto (avevo studiato bene il catechismo e pure altri libri di teologia che li voleva distruggere), ma l’essenziale spazzò via il dialogo che in me teneva banco tra il Farina-fariseo e il Farina-zelota. La legge morale? O la spinta rivoluzionaria, dotata di spada? Ma no: salire sul sicomoro ed essere guardati da Gesù. Il resto conta poco. Anzi conterà tantissimo se si lascerà avvolgere dall’entusiasmo di quello sguardo.
Così mi capita, dalla visita di Milano del marzo scorso, quando vedo e ascolto Francesco. Ad un certo punto del suo dire, è come se un fuoco bruciasse le sue ossa, e il suo parlare si fa travolgente, ed è come se abbattesse anche molti ostacoli in lui stesso. Io la chiamo “travolgenza”. E invito chi legittimamente aspetta la risposta ai “dubia” di portare pazienza, di stargli al fianco conservando tutte le domande e le perplessità, ma consapevoli che lo Spirito Santo – magari usando anche di un complotto di porporati – ha scelto quest’uomo. Freghiamocene dei cortigiani. Il Papa stesso ci autorizza a maltrattarli. Una volta ha detto a proposito di certi «amici, tra virgolette»: «Sono stato usato». Capitò così al tempo di Paolo VI. Il suo discepolo e studioso bresciano più caro, padre Enzo Giammancheri, poco dopo la morte del Papa suo concittadino scrisse un articolo: “Paolo VI non era un montiniano”. Così Francesco non per forza è un bergogliano. Ma è una tromba dello Spirito venuta provvidenzialmente dalla pampa a sconvolgere il nostro quietismo infelice.
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