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E l’Atlantico si allarga

Il dissenso europeo nei riguardi di un attacco americano a Saddam Hussein è solo l’ultimo esempio di divergenza fra Usa e Ue. E i politologi Usa fustigano l’Europa

Rodolfo Casadei
30/08/2002 - 0:00
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A questo punto è possibile che, per molte buone ragioni, l’amministrazione Bush rinunci alla preannunciata campagna militare contro l’Irak. Ma l’eventuale dietrofront Usa non può mettere in secondo piano un fatto politico di capitale importanza: la conferma della crisi della solidarietà strategica euro-atlantica, cioè la crescente divaricazione fra l’approccio americano e quello europeo ai problemi internazionali. Oltre all’opposizione dei regimi arabi, infatti, l’ipotetico assalto a Saddam Hussein ha incontrato la contrarietà di tutti i governi dell’Unione europea (Ue), con la parziale eccezione di quello britannico. I dissensi fra Usa ed Europa sulla questione Saddam Hussein si aggiungono a quelli, passati e presenti, sulla ratifica dei Protocolli di Kyoto in materia ambientale, sull’istituzione della Corte penale internazionale, sul conflitto fra israeliani e palestinesi, sui progetti di difesa antimissilistica, ecc. In generale, gli europei rimproverano agli americani di preferire l’uso della forza e l’azione unilaterale alla forza del diritto e all’approccio multilaterale; gli americani rimproverano agli europei la loro reticenza ad assumersi impegni di sicurezza globale e l’illusorietà della loro visione di un mondo dove la forza del diritto (internazionale) basterebbe di per sé a produrre ordine. Recentemente il politologo americano Robert Kagan, in un saggio pubblicato sulla rivista Policy Review e tradotto in Italia a puntate sul quotidiano Il Foglio, ha formulato un giudizio spietato su quello che definisce il “problema transatlantico”: l’Europa esalterebbe le virtù del multilateralismo, della diplomazia a tutti i costi, del primato del diritto perché, avendo rinunciato alla potenza militare, teme qualunque sfida bellica e qualunque impegno che ne svelerebbe la vulnerabilità; e d’altra parte non vede ragioni per rinunciare a quel clima di “pace perpetua” e di prosperità senza responsabilità di cui gode da mezzo secolo grazie all’ombrello militare degli Usa. Ma, spiega Kagan, senza la forza nessun diritto internazionale e nessun principio di civiltà può essere fatto rispettare in un mondo pieno di lupi, perciò gli europei farebbero meglio a darsi una svegliata.
Sul tema della crescente distanza politica fra Usa e Ue abbiamo avuto l’occasione di un colloquio con un personaggio di eccezione: David Forte, professore di diritto all’università di Cleveland, Ohio, e ospite del recente Meeting di Rimini, è contemporaneamente ascoltato consigliere del presidente Bush per gli affari islamici e consulente del Pontificio Consiglio per la famiglia. Le sue risposte nette e abrasive non hanno bisogno di commenti.
Professor Forte, anche sulla questione dell’Irak, come già su altre, non c’è intesa fra Usa e Ue. Che ne pensa delle obiezioni degli europei?
Al progetto di una campagna militare contro Saddam Hussein vengono indirizzati due tipi di obiezioni. Il primo tipo è di natura pratica, ed è costituito da alcuni interrogativi: è sicuro che la campagna avrà successo in termini militari? Può essere condotta senza perdite umane fra i civili irakeni? Si può ragionevolmente pensare che dopo la caduta di Saddam l’Irak troverà un governo stabile? La guerra sarà abbastanza breve da evitare una radicalizzazione dei regimi arabi confinanti a causa di moti di piazza? Questi sono interrogativi di natura pratica che meritano la massima considerazione. Ma c’è un altro genere di obiezioni al progetto di un intervento militare contro Saddam Hussein che trovo del tutto inaccettabile: sono le obiezioni basate sulla paura. Non c’è nessun regime nel mondo arabo e nessun governo in Europa che sia soddisfatto della permanenza al potere del dittatore irakeno: tutti preferirebbero vederlo uscire di scena. Allora perché si oppongono? Perché hanno paura che un attacco contro di lui li destabilizzi o che Saddam Hussein reagisca usando armi di distruzione di massa contro di loro. Ma proprio qui sta il punto: più aspettiamo, e più i pericoli della destabilizzazione e delle armi di distruzione di massa aumentano. Fino ad oggi Saddam non ha dato nessuna prova di essere diventato più civile: sappiamo che non ha nessuna remora, che si tratti di uccidere migliaia di persone, di sviluppare in segreto armi di distruzione di massa in violazione dei trattati internazionali o di infrangere gli accordi circa le ispezioni dell’Onu agli impianti irakeni. Con Saddam Hussein, sappiamo con chi abbiamo a che fare: più aspettiamo, più il pericolo cresce. Non possiamo restare seduti e aspettare che gli succeda qualcosa, come sembra che vogliano fare gli europei.
Proprio questo modo di impostare questo e altri problemi da parte americana fa sorgere l’accusa di unilateralismo che gli europei vi rivolgono.
Sì, gli europei si mostrano irritati per quello che definiscono l’unilateralismo americano. Ma quando l’unilateralismo accresce l’ordine nel mondo, è una buona cosa. Gli europei si mostrarono allarmati quando il presidente Bush preannunciò che gli Usa si sarebbero ritirati dal trattato missilistico ABM con la Russia, dissero che ciò avrebbe alterato l’equilibrio delle forze e ci avrebbe riportato ai tempi della Guerra fredda. Invece è successo che dall’abrogazione del trattato Abm, compiuta in modo perfettamente legale, è derivato un avvicinamento della Russia alla Nato (allusione al trattato di associazione di Pratica di Mare – ndr) che gli europei non avrebbero mai immaginato, perché Bush ha abbinato alla fuoriuscita dal trattato una riduzione delle testate nucleari offensive. Dunque dall’iniziativa unilaterale di Bush -motivata dall’esigenza vitale per gli Stati Uniti di poter disporre anche di missili antibalistici nel proprio sistema difensivo- è derivata una maggiore stabilità e legalità internazionale, contrariamente a quanto affermavano gli europei. Il problema è che, a partire dall’epoca della I Guerra mondiale, molti europei continuano a ragionare e ad agire sulla base della paura che le situazioni sfuggano di mano se si decide di agire unilateralmente. Se a suo tempo i francesi avessero agito unilateralmente, impedendo a Hitler di rioccupare la Renania, non avremmo avuto la II Guerra mondiale; se a suo tempo i britannici avessero agito unilateralmente, rifiutando di accettare l’annessione dei Sudeti da parte di Hitler, non avremmo avuto la II Guerra mondiale. L’idea che l’iniziativa unilaterale porti necessariamente a un peggioramento della situazione è sbagliata. È vero il contrario: se constatiamo l’esistenza di una minaccia, e non agiamo per porvi fine, la situazione diventerà sempre più grave.
La preferenza degli europei per l’azione multilaterale e le procedure giuridiche ha reso possibile quel processo di integrazione senza precedenti che è l’Unione Europea.
Un processo che non mi entusiasma, molto diverso da quello sperimentato negli Usa: nel processo di unione americano il popolo ha partecipato sin dall’inizio, ci furono congressi popolari in ogni Stato per la ratifica della Costituzione e il nuovo governo doveva rendere conto al popolo. In Europa l’unificazione continua a procedere dall’alto verso il basso, dalla burocrazia di Bruxelles verso gli stati; e non c’è un sistema per cui chi prende le decisioni a Bruxelles rende conto al popolo, come c’è invece nei singoli stati componenti.
In linea di principio l’Europa è solidale con la vostra guerra al terrorismo, ma sembra chiedervi una maggiore adesione alla legge internazionale.
La legge esiste solo quando è assicurata la sopravvivenza. Nessuna quantità di legge avrebbe mai potuto impedire a quei famosi aerei di schiantarsi contro il World Trade Center. Quando la sopravvivenza di un paese è in gioco, quel paese deve prendere le misure necessarie per difendersi. E se guardiamo alle misure che gli Usa hanno preso, vediamo che sono proporzionate alla minaccia e conformi alla legge internazionale per quanto è praticabile, ma senza pregiudicare l’obiettivo fondamentale: la sopravvivenza della società americana.

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