È arrivata l’ora del Sì profit

Di Mariarosaria Marchesano
17 Settembre 2017
Il caso della società Spazio Aperto di Milano, che si è aggiudicata la manutenzione delle 4.000 bici gestite dal colosso cinese Ofo, è solo un esempio di un comparto in piena rivoluzione

riforma terzo settore

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Si è appena aggiudicata il servizio di manutenzione di 4 mila biciclette dopo che il Comune di Milano ha assegnato uno dei tre lotti messi in gara al gruppo Ofo, il colosso cinese del bike sharing. La cooperativa sociale Spazio Aperto, che già ha all’attivo la manutenzione della flotta delle auto Car To Go, a Milano ma anche a Roma, Firenze e Torino, mette a segno così un altro colpo che ne conferma la capacità di stare sul mercato nel rispetto di una mission che si è data fin dalle sue origini che risalgono ai primi anni Ottanta: il reinserimento di disabili nel mondo del lavoro. Oggi i dipendenti di Spazio Aperto sono circa 600 e il 35 per cento è rappresentato, appunto, da persone disabili. Tutti insieme hanno raggiunto un fatturato di 15 milioni di euro che è destinato ancora ad aumentare con le ultime commesse.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«La storia di Spazio Aperto, che nasce come laboratorio sociale e poi si è evoluta nel settore dei servizi, dall’ecologia al trasporto rifiuti fino a quelli di manutenzione e di informatica, coincide con la storia delle persone che ci lavorano», spiega Luca Casalini, vice presidente della cooperativa (che conta 213 soci) e responsabile commerciale. «Io stesso sono arrivato qui più di 20 anni fa per fare il servizio civile e non me ne sono più andato». Storie come queste rappresentano l’altra faccia di un mondo, quello delle imprese sociali, che nell’immaginario collettivo è spesso associato a finanziamenti ed appalti pubblici e, dopo gli scandali di Mafia capitale e dei traffici degli immigrati, si è fatto anche la nomea di un settore poco trasparente in cui pullulano le clientele. Ma Spazio Aperto, con la sua capacità di diversificare il business e di competere sul mercato al servizio di committenti pubblici e privati, non è un caso isolato.

Modello italiano
Un recente rapporto della Commissione europea rappresenta l’Italia come un modello virtuoso di ecosistema imprenditoriale di tipo sociale, all’interno di un gruppo di paesi preso in esame (in cui figurano anche Belgio, Francia, Irlanda, Polonia, Slovacchia, Spagna), con una crescita costante a partire dal 2001 in termini di giro d’affari e di posti di lavoro. Il rapporto cita diversi esempi positivi di realtà imprenditoriali nel nostro paese, tra i quali la Nuova Dimensione di Perugia, le venete Incontro Industria e InConcerto, la K-Pax della Val Camonica, la Aforis di Foggia, la Welfare Milano e molti altri. A quest’universo si aggiunge Banca Prossima (gruppo Intesa Sanpaolo) come caso di istituto di credito specializzato nell’erogazione di finanziamenti al settore. Tutte queste imprese hanno un fattore in comune: la capacità di coniugare la vocazione sociale con un orientamento al mercato e una gestione efficiente. In una parola, fanno profitti, i quali, in base alle norme in vigore fin ad oggi, non possono essere redistribuiti ai soci ma solo reinvestiti.

Le cose, però, sono destinate a cambiare con la riforma del Terzo settore approvata lo scorso anno e che sta per diventare operativa dopo la lunga gestazione dei decreti attuativi che hanno visto impegnati sia il governo Renzi sia quello di Gentiloni a testimonianza della complessità di una materia che è risultata anche molto controversa sul piano politico (gli ultimi regolamenti sono stati varati la scorsa estate). Tale riforma interviene a vario titolo per regolamentare – attraverso un codice unico – l’universo sterminato di organizzazioni, associazioni, fondazioni, onlus ed enti di diversa estrazione che ruotano intorno al Terzo settore (se ne contano oltre 300 mila in tutto), ma soprattutto introduce una nuova disciplina dell’impresa sociale (modifica del decreto legislativo 155 del 2006) proiettandola in una nuova dimensione, quella del “sì profit”.

«Si tratta di un’importante sfida al cambiamento», spiega a Tempi Giorgio Fiorentini, economista dell’Università Bocconi. «L’impresa sociale, secondo la nuova declinazione prevista dalla riforma, sarà una società di capitali a tutti gli effetti, con obblighi di rendicontazione e di governance, e con la possibilità di distribuire, almeno in parte, gli utili tra gli azionisti. Questo finirà con l’avere un impatto decisivo sulla loro evoluzione che andrà sempre di più in una direzione di tipo aziendale e privatistico, pur nel rispetto della vocazione sociale del business». L’impatto di cui parla Fiorentini sarà misurato sulle circa 100 mila realtà che rappresentano oggi l’universo delle imprese sociali in senso lato – con il coinvolgimento di 850 mila lavoratori – ma di cui la gran parte è costituita da operatori di piccole e piccolissime dimensioni. L’obiettivo della riforma è, dunque, moltiplicare quel piccolo esercito di imprese sociali in senso stretto, nato con la legge del 2006 che, però, si è rivelata troppo vincolante per lo sviluppo del settore e per questo motivo oggetto di riforma.

La platea, dunque, è destinata ad allargarsi, ed è anche probabile, come prevede Fiorentini, che in futuro «ci possa essere un processo di consolidamento con fusioni e aggregazioni tra più realtà con lo scopo di fare massa critica e arrivare a livelli di fatturato appetibili per potenziali investitori e finanziatori che potranno godere anche di detrazioni fiscali». Insomma, una vera rivoluzione per un settore abituato ad un passo diverso e fino ad oggi chiuso in se stesso in un’aurea di autoreferenzialità. Ma proprio per questo non sono poche le resistenze che la stessa riforma potrebbe incontrare nonostante la maggiore flessibilità e le agevolazioni previste.

Il caso delle cooperative sociali
Nel contesto dell’economia sociale, le cooperative sociali (25 mila in tutto) rappresentano una realtà rilevante e da sempre quella più organizzata e strutturata. Ancora il rapporto della Commissione europea spiega che nel periodo di maggiore crisi, tra il 2008 e il 2014, le aziende di tipo tradizionale hanno perso circa 500 mila posti di lavoro, mentre il numero complessivo di lavoratori delle coop sociali è aumentato del 20 per cento. Stefano Granata, presidente di Cgm, consorzio di coop con 1.000 affiliate, spiega che il settore ha retto l’onda d’urto della crisi ma che questo non basta poiché la sfida più importante è quella dell’innovazione e del management. «Siamo convinti che questo sia il momento di fare un salto di qualità dotandoci di strumenti adeguati in termini di gestione e di sviluppo. Per questo abbiamo aderito a un progetto europeo, InnoWises, con la Fondazione Politecnico di Milano e altri partner, che prevede investimenti che consentano alle nostre imprese di superare il divario tecnologico».

E la riforma? È prevedibile una trasformazione in massa delle coop in imprese sociali? «Le cooperative sono figlie di un percorso culturale che viene dagli anni Settanta», aggiunge Granata, «la riforma rende sicuramente più flessibile e appetibile lo status giuridico di impresa sociale in un momento in cui la domanda di servizi sociali è in costante crescita. A mio avviso è difficile prevedere che cosa accadrà nel mondo della cooperazione in cui il sistema del voto capitario, cioè ogni socio esprime un voto, è percepito in modo molto positivo per la partecipazione alla governance. Per contro, molte realtà valuteranno con interesse la possibilità di distribuire i profitti».

@MRosariaMarche2

Foto Ansa

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