Dove porterà tutto questo tormento dei protagonisti delle serie tv?

Di Emanuele Boffi
22 Agosto 2021
Una bella mostra del Meeting ci porta a ragionare sui temi ultimi, qualche espediente narrativo e il successo di pubblico di True Detective, Chernobyl e Rocco Schiavone
Woody Harrelson e Matthew McConaughey nella prima stagione di True detective
Woody Harrelson e Matthew McConaughey nella prima stagione di True detective

I curatori della mostra al Meeting di Rimini “Una domanda che brucia” hanno scelto sette protagonisti di sei serie tv per rispondere alla domanda “perché tanti le guardano, si appassionano, le seguono, ne discutono”?

La scelta delle serie è azzeccata e fa subito comprendere che l’intento è duplice: da un lato, raccontarci, attraverso le voci di chi le realizza, cosa esse siano (particolarmente interessanti sono le interviste a Joe Weisberg e Joel Fields di The Americans), dall’altro, avanzare un’ipotesi interpretativa che spieghi perché tali spettacoli esercitino tanto fascino su milioni di spettatori.

Dal vichingo Ragnar a Rocco Schiavone

Come si diceva, i protagonisti messi sotto la lente d’ingrandimento sono sette.

Si tratta di Jules e Rue di Euphoria (2019), due ragazze che affrontano un complicato percorso attraverso la droga e il genere per superare “lo specchio impetuoso del mondo e della cultura nichilista ereditata dai genitori” (così recita un pannello della mostra).

Valerij Legasov è lo scienziato che nella meravigliosa miniserie Chernobyl (2019) ha l’ingrato compito di convincere le riluttanti autorità sovietiche a non nascondere il disastro nucleare. “Ciò che è in gioco è la libertà, la possibilità di dire senza vergogna: «lo so chi sono e so quello che ho fatto»”.

Ragnar è l’eroe della serie Vikings (2013) convinto di poter forgiare il proprio destino fino all’incontro e poi alla perdita del monaco cristiano Athelstan, colui che “si poneva domande”.

Dolores è l’androide protagonista di Westworld (2016) che si oppone alla distruzione del mondo “in nome della bellezza”.

Rust è il detective-filosofo della prima stagione di True detective (2014) che compirà un viaggio esistenziale dal sapore dantesco: dalla selva oscura del proprio risentimento verso l’ammissione che nel mondo la luce delle stelle possa prevalere sul buio.

E infine Rocco Schiavone, il vice questore romano dell’omonima serie, che si muove tra gli splendidi paesini della Valle d’Aosta, risolvendo di volta in volta un caso, mentre combatte coi propri demoni e si confida col fantasma di Marina, la moglie defunta.

Nessuno è perfetto

La mostra ci conduce dunque nell’universo tormentato di questi personaggi facendoci notare, in particolare, quei passaggi delle serie tv in cui ognuno di loro affronta quelle che potremmo definire “le grandi questioni millenarie che interrogano l’uomo”: la giustizia, la verità, il bene, il male, il dolore, il perdono, la redenzione.

La mostra ci fa notare a più riprese che nessuno dei nostri protagonisti “è perfetto”. Si tratta di personaggi  contradditori, pieni di difetti, persino assassini o tossicodipendenti. Questo, seguendo il filo del ragionamento proposto, dovrebbe rafforzare ancor più il messaggio che, probabilmente, i curatori vogliono trasmetterci: qualunque sia la tua condizione, pure se macchiata dai più tremendi errori, è nella tua natura quella di “bruciare” per una domanda di senso.

Un grido o una barriera?

Insomma, è una mostra che, partendo da un prodotto nazionalpopolare, vola alto e lo fa – merito questo dei curatori – andando a spulciare dialoghi e passaggi delle serie che queste domande sollevano. Ma, se ci si può permettere un’annotazione critica e (speriamo) costruttiva, la vicenda del protagonista tormentato e imperfetto è uno stereotipo da almeno vent’anni. Persino i supereroi Marvel lo sono, ormai.

C’erano una volta Derrick, Colombo e la Signora in giallo. Erano i buoni e i simpatici e ad ogni puntata ci consegnavano il manigoldo. Trama lineare, puro intrattenimento, senza scossoni. Oggi ci sono Rust e Schiavone, detective sofferenti, anticonformisti, antipatici il cui “tormento” esistenziale è il vero protagonista della vicenda. Trama zigzagante, continui flashback, colpi di scena in successione, toni evocativi e suggestioni esistenziali più o meno riuscite. Ma tutto questo tormento porta a cosa? E dove?

Bisogna dunque un attimo soffermarsi su questa angoscia esistenziale e chiedersi se, oltre a essere un evidente espediente narrativo, non sia anche la dichiarazione di una sostanziale impotenza ad andare al di là della “domanda che brucia”.

E se fosse proprio quel tormento, così descritto, la più alta barriera per affrontare il bruciore? Insomma: è un grido di dolore vero per una risposta presentita ma non vissuta o è il paupolo del pavone che fa la coda sull’orlo dell’abisso?

Ossessione e imprevisto

Un suggerimento suggestivo alla problematica posta, giusto per rimanere in tema, la offre la terza stagione della serie True Detective che, pur essendo meno bella della prima, ha una conclusione forse meno commovente ma più originale: l’ossessione dell’investigatore protagonista porta solo alla demenza, il caso era già stato risolto, nel nascondimento, da un imprevisto atto di coraggio e generosità. L’episodio si intitola “Ora mi sono ritrovato”.

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