Don Ferdinando Rancan, il “somarello” di Dio
Don Ferdinando Rancan, nato a Tregnago (Verona) il 14 giugno 1926, si è congedato da questo mondo il 10 gennaio 2017, dopo una vita compiuta più che virtuosamente. In seguito all’aver conseguito i titoli di studio in Scienze Naturali presso l’Università “La Sapienza” di Roma e in Teologia a Verona, divenne sacerdote e professore, impegnandosi nell’insegnamento nel Seminario diocesano e nei licei scaligeri. È stato parroco per circa venti anni presso Pieve dei Santi Apostoli e poi collaboratore del parroco presso la parrocchia di Sant’Eufemia a Verona. Egli scrisse diversi libri, tra cui Il senso del vivere. Uomo, tempo, eternità (Ares, Milano 2000), Là dove cielo e terra si incontrano. La preghiera e la Messa nella vita del cristiano (Studium 2003), Ricevi questo anello. Riflessioni sull’amore umano e il matrimonio (Studium), La moneta del tempo. Un calendario per l’anima (Centro Culturale Nicolò Stenone, Verona) e In quella casa c’ero anch’io. Una risposta alle menzogne su Gesù Cristo (Fede & Cultura, Verona 2005) e la raccolta delle sue poesie Fiori di Melograno, che ricevette non pochi riconoscimenti.
Per di più, ha favorito l’approdo a Verona dell’Opus Dei stessa ed è stato il primo sacerdote aggregato italiano della “Società Sacerdotale della Santa Croce”, l’associazione di chierici intrinsecamente unita alla Prelatura dell’Opus Dei (fondata il 2 ottobre 1928 a Madrid; l’unica prelatura personale esistente attualmente nella Chiesa Cattolica). La “Società” fu anch’essa concepita da San Josemaría Escrivá de Balaguer, nel 1943, allo scopo di aiutare i sacerdoti secolari (sia dell’“Opera” che diocesani; al momento i soci sono più di 4.000) a cercare la santità nell’esercizio del loro ministero al servizio della Chiesa, secondo lo spirito e la prassi ascetica dell’Opus Dei.
Ma prima ancora che tutto ciò, don Ferdinando si definiva (e qui si vede la sua virtuosa umiltà) un “Somarello” pieno di gratitudine e amore per Dio; al Suo servizio. E lo faceva anche sulla scorta di san Josemaría Escrivá, che lo intendeva con un significato “vertiginoso”, giacché “celeste”, quale simbolo della santificazione del lavoro ordinario. Escrivà faceva notare ai suoi figli che Gesù, per entrare a Gerusalemme, non scelse un cavallo o un’altra nobile cavalcatura ma preferì un asinello: un animale umile, obbediente, resistente nel lavoro, che si accontenta di poco e, allo stesso tempo, procede deciso e allegro. Inoltre, “l’asinello ha le orecchie lunghe e tese verso l’alto. Sono come antenne innalzate verso il cielo per cogliere la voce del suo padrone, di Dio”
E così era don Ferdinando, una persona che, con “cuore tenero e spirito forte”, non si risparmiava (e di sicuro da lassù tuttavia lo fa), che era al servizio degli altri, che non aveva velleità di trionfare ma svolgeva i suoi compiti con amore e dedizione.
Ne ho parlato con don Ermanno Tubini, sacerdote veronese, che dal 1960 è legato all’Opus Dei; egli ha esercitato il suo ministero a Milano, Roma e Verona, dopo la laurea in Lettere moderne presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma. La pastorale famigliare è il campo primario del suo ministero e dal 2017 si occupa di salvaguardare la memoria di Don Ferdinando Rancan, dapprima curando, tra il 2017 e il 2018, un’antologia di testi dello stesso sacerdote, Innamorato del Cielo (Fede & Cultura) e l’autobiografico Il somarello e la sua storia. La storia della mia vocazione sacerdotale e del mio incontro con l’Opus Dei (Verona Fedele Editrice).
Don Ermanno, chi era don Ferdinando Rancan?
Di getto le direi che era il sacerdote che ognuno vorrebbe incontrare per essere aiutato a vivere vicino a Dio. Qualcuno lo ha ritratto così: era un sacerdote buono, elegante, gentile nei modi, mite, ma capace di ostinazione e operosità, di ascolto e di dialogo, intelligente, colto, innamorato di Dio, molto spirituale, completamente abbandonato alla provvidenza divina.
Se devo aggiungere qualcosa di mio le dirò che, da ragazzo, quando lo incontrai, don Ferdinando mi apparve come un sacerdote credibile, che dava risposte che sapevano di verità e aveva una forte esperienza personale di Dio.
L’ho accompagnato anche negli ultimi anni della sua vita, fino alla fine: manteneva ancora la fisionomia di sempre: quella di un sacerdote che non si stancava mai di parlare di Dio, che aveva tempo per tutti, fossero parrocchiani o no; che reggeva al dolore, fisico o morale, conservando il sorriso.
Perché la sua storia non è significativa per la sola chiesa veronese, bensì per l’intera Chiesa universale? Quali frutti possiamo cogliere dalla sua storia?
Credo effettivamente che don Ferdinando abbia vissuto una vita esemplare, con le connotazioni della santità. Se di santità si tratta, questa ha una portata universale, produce ovunque un mondo di bene, diffonde in ogni luogo i doni di Dio: anche se la persona è poco conosciuta, vive in un luogo sperduto, in capo al mondo.
Premesso ciò, penso che la vita di don Ferdinando possa gettare luce sull’importanza e la fecondità di una santità vissuta nel quotidiano, costruita sulla fedeltà di ogni momento al progetto di Dio, sull’amore che vivifica ogni cosa. Una santità alla portata di tutti, impegnativa ed entusiasmante, che don Ferdinando aveva conosciuto quando incontrò l’Opus Dei nel 1953 a Roma. Gli piacque l’invito di san Josemaría Escrivá a trasformare “in endecasillabi la prosa quotidiana”, a trasformare la prosa in poesia epica, a fare dell’ordinario una realtà straordinaria.
Quali sono state le tappe principali del suo cammino sacerdotale?
Direi subito che è stato un cammino sacerdotale gioioso e fecondo, abbracciato di slancio fin dai primi momenti, fin dai primi incarichi: insegnante in seminario e in due licei cittadini, viceparroco in piccole parrocchie, tante persone da seguire nelle loro necessità spirituali e materiali … Mise in campo una generosità che a volte rasentava l’imprudenza, perché non si tirava indietro e correva il rischio di compromettere la salute. Ricordo un viaggio nella notte, a gennaio, con un ciclomotore, in una zona di montagna, in una bufera di gelido nevischio, dopo ore di confessioni…
Si dedicava soprattutto ai rapporti personali. Non si limitava agli incontri in chiesa; faceva visita alle famiglie, quando lo vedeva necessario, andava a trovare le persone negli ospedali, costruiva relazioni, cercava in questo modo di avvicinare i suoi fedeli a Dio.
Quando divenne parroco di una chiesa centrale di Verona si lanciò nella cura dei suoi fedeli con una vicinanza assidua; pubblicò libri per migliorare la loro formazione spirituale e dottrinale; si preoccupò delle condizioni materiali degli edifici e li rese più funzionali e più idonei per la vita di pietà.
Viveva con gioia il ministero sacerdotale e riusciva a mantenere il sorriso anche nei momenti difficili. Me lo hanno confermato moltissime persone che lo hanno frequentato.
A proposito di momenti difficili, nel suo libro racconta di un avvenimento drammatico all’inizio del suo cammino sacerdotale.
Ci fu un avvenimento che lo scombussolò profondamente, rischiò di compromettere il sogno della sua vita – essere sacerdote – e per contrasto lo consolidò nel suo amore al sacerdozio. Risale al maggio 1949. Ferdinando era arrivato ormai ad un passo dall’ordinazione sacerdotale, godeva della fiducia dei suoi superiori, aveva ottenuto risposta positiva alla sua richiesta di ricevere il diaconato, e all’improvviso, da un momento all’altro, si sentì dire dal vescovo che non lo avrebbe ordinato sacerdote e che doveva lasciare il seminario. La ragione di una decisione così grave potrebbe oggi sorprendere. Ferdinando aveva composto tre poesie e le aveva recitate davanti al vescovo in occasione di un festeggiamento in suo onore. Il vescovo le considerò “pervase da un pessimismo esistenzialista assai pericoloso, sintomo di una formazione e di una personalità distorte”. Per la verità, quelle poesie, che si ispiravano a Thomas Stearns Eliot, non meritavano un giudizio così severo, ma era un momento storico particolare e il vescovo era molto preoccupato per l’ortodossia dottrinale dei suoi sacerdoti.
A distanza di tempo tutto fu chiarito: Ferdinando riuscì a farsi conoscere meglio e il vescovo si convinse che poteva essere un ottimo sacerdote e procedette all’ordinazione. Ma dovettero passare tre anni e furono anni di grande sofferenza. Ferdinando fu salvato dal senso soprannaturale, perchè pensava che Dio lo seguiva dall’alto e che doveva avere un progetto su di lui. Inoltre, riuscì a mantenere pulito il suo cuore; non permise che vi albergasse risentimento alcuno verso il suo vescovo.
Gli rimase sempre l’impressione di essere stato privato per un certo tempo del sacerdozio e di averlo riavuto, donato da Dio e grazie alla determinazione con cui difese il sogno della sua vita. Pensò sempre che il grande dolore della perdita rese più grande il suo amore al sacerdozio.
Questo amore gli ha permesso di affrontare con fortezza e serenità l’ultima parte della sua vita segnata da prove fisiche e morali: gravi malattie, fino alla prova più dolorosa della cecità; critiche e fraintendimenti fra i confratelli; la richiesta del vescovo di rinunciare anzitempo alla parrocchia in cui svolgeva un fiorente lavoro… Il commento di molti è stato questo: “non parlava mai male di nessuno”; e di altri: “era sempre sorridente”.
Ad un certo punto, per la sua vita, fu decisivo l’incontro con l’Opus Dei; vi aderì come primo sacerdote diocesano “aggregato” italiano, entrando a far parte della Società Sacerdotale della Santa Croce, associazione sacerdotale unita all’Opus Dei, e fece conoscere l’Opera a Verona e nel Veneto. Come seguì le persone dell’Opus Dei nel suo ministero? Ebbero un trattamento previlegiato rispetto agli altri suoi fedeli?
Terminati gli studi in Scienze naturali a Roma, nel 1955 don Ferdinando tornò stabilmente a Verona, ricco dell’incontro con l’Opus Dei, e attraverso la sua azione pastorale molte persone conobbero l’Opera e molte si sentirono attirate dal Signore con chiamata vocazionale. Don Ferdinando sentì la responsabilità di seguirle perché la fiammella della vocazione non si spegnesse; lo fece con particolare cura, fino quando il lavoro dell’Opus Dei non si strutturò in città con l’apertura dei Centri e la presenza stabile di direttori, direttrici e sacerdoti. L’azione formativa passò in mano ad altri e il suo impegno in questo ambito andò allora riducendosi.
Don Ferdinando accettò con gioia il cambiamento e continuò a guardare, con il cuore del buon pastore, alle tante pecorelle che Dio gli aveva affidate, per le quali provava identico affetto. Sapeva che il cammino verso la santità consisteva per lui nell’adempimento dei compiti affidatogli dal suo vescovo, lì dove gli toccava di operare, con tutte le persone che lì incontrava. La sua personale vocazione all’Opus Dei gli chiedeva proprio questo: se si fosse dedicato solo alle persone dell’Opus Dei, o se avesse fatto differenze, avrebbe potuto mancare gravemente.
Ho voluto avere conferma della correttezza del comportamento di don Ferdinando parlando con un ecclesiastico con compiti di grande responsabilità nella diocesi di Verona. Ho chiesto: “Il fatto di seguire le persone dell’Opus Dei ed essere lui stesso della Società Sacerdotale della Santa Croce, lo ha distratto dalla parrocchia?” La risposta è stata decisa: “Assolutamente no, anzi ha potenziato il suo essere prete in parrocchia. È sempre stato un prete diocesano pur essendo anche molto impegnato con voi”.
Era anche saggista e poeta, come ricorda la pregevole raccolta “Fiori di Melograno”. Che cosa ci può raccontare di questi talenti di don Ferdinando?
Come scrittore e come poeta Don Ferdinando merita ogni apprezzamento. I saggi si basano sulla profondità del pensiero e su un costrutto linguistico scorrevole, preciso e ricco: penso alla sintesi dottrinale Il tempo e l’eternità, 1995, all’autobiografia (Un somarello e la sua storia, 2018, postumo), alla storia di Gesù (In quella casa c’ero anch’io, 2005), al breve saggio sul matrimonio (Ricevi questo anello, 1989 e 2007).
Le poesie di Fiori di melograno, 1999, parlano da sole, dicendoci i premi letterari che hanno ricevuti: Primo premio Tito Casini per la miglior poesia inedita, 1997; Premio Italia letteraria, 1998; Secondo premio nazionale di poesia promosso dal Club letterario italiano, 1998.
Desidero attardarmi solo sulle poesie. A parte il loro valore letterario, sono la toccante storia interiore di don Ferdinando, più espressive dell’autobiografia, scritta a distanza di tempo dagli avvenimenti (2006, presumibilmente), quando questi erano ormai decantati. Le poesie sono scritte tra il 1949 e il 1954, quando la ferita del rifiuto dell’ordinazione sacerdotale era viva, ma si andava rimarginando. Nell’estate del 1952 il vescovo si mostra disponibile all’ordinazione; nel giugno 1953 don Ferdinando diventa sacerdote: la grande sofferenza si spegne.
Le poesie rivelano il grande disagio del cuore, ma manifestano anche che, in quel cuore, è presente la certezza di Dio. Grazie a ciò, il dolore si stempera e possono convivere insieme – con la sofferenza – la serenità e la pace.
Credo che comporre poesie abbia avuto per don Ferdinando un significato particolare. Gli servì per ritrovare se stesso, in un momento in cui – sotto i colpi di un avvenimento inaspettato e incomprensibile – correva il rischio di perdersi.
Del libro che ha dedicato a don Ferdinando, mi ha molto colpito la ricostruzione quasi guareschiana del suo “Mondo Piccolo”. Quanto è stato importante compiere questo viaggio per conoscerlo con più affetto e precisione?
È stato effettivamente un viaggio per ritrovarlo. All’indomani della sua morte, il 10 gennaio 2017 – il settimo anniversario è vicino –, cominciai a incontrare persone che lo avevano frequentato e mi dicevano un gran bene di lui. Anch’io avevo motivi di riconoscenza nei suoi confronti, perché mi seguì sotto il profilo spirituale da liceale e perché io, da sacerdote, gli fui vicino negli ultimi anni della sua vita. Sapevo molte cose di lui. Quando ascoltavo persone che mi dicevano che era un santo, pensavo che qualcuno doveva raccogliere notizie della sua vita che ne dessero testimonianza. Un giorno qualcuno lo farà con perizia; intanto dovrà farlo chi di dati già ne ha. E ho sentito la responsabilità di imbarcarmi: perché dati ne avevo e altri me li sarei procurati. E così ho intrapreso un viaggio per raggiungere i luoghi in cui era stato, per incontrare le persone che lo avevano conosciuto, per apprendere dalla loro voce le vicende che si erano susseguite negli anni. Credo di averlo incontrato di nuovo: vedendo, ascoltando, mi sono spesso commosso.
È realistico immaginare che presto possa essere elevato all’onore degli altari?
Nutro la speranza che un giorno la Chiesa dichiarerà la santità di vita di don Ferdinando e lo eleverà all’onore degli altari. Il percorso sarà lungo perché gli studi saranno accurati e occorrerà l’intervento di Dio per confermare gli studi con la concessione di miracoli per l’intercessione di don Ferdinando. Posso dire che il cammino è iniziato, con l’approvazione da parte del vescovo di Verona, mons. Domenico Pompili, di una preghiera per la devozione privata e con la costituzione di una Associazione per la diffusione della conoscenza di don Ferdinando. Abbiamo deciso di dare una ulteriore finalità all’Associazione: la preghiera per la santità dei sacerdoti, che affidiamo all’intercessione di don Ferdinando. Nel frattempo stiamo raccogliendo e autenticando numerose testimonianze a favore della sua santità di vita. Alla fine sarà quello che Dio vorrà.
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