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Dino Buzzati. “Uno ti aspetta”

Siamo tutti presi da come vanno le cose in questa vita, su questo treno. E invece Buzzati ci fa una semplice domanda: ma dove va questo treno e chi lo guida?

Pietro Baroni
30/10/2021 - 0:45
Cultura
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Tra il 17 e il 19 marzo si terranno a Firenze, promossi da Diesse Firenze e Toscana, i “Colloqui fiorentini”, quest’anno dedicati a Dino Buzzati. Qui il sito con tutte le informazioni.

Nella sterminata produzione letteraria di Dino Buzzati sono molte le immagini-icona che caratterizzano le sue pagine; immagini che ritornano, cariche di significato, arricchendosi ogni volta di una sfumatura diversa. Metafore della vita, che come un gioiello prezioso e misterioso Buzzati tiene fra le mani e gira e rigira, scrutandone le mille sfaccettature, gli infiniti riflessi che la luce vi sprigiona; attirato dalla sua bellezza, affascinato ed inquietato dal suo mistero.

Sono le montagne, le incantate Dolomiti, che fin da giovane Buzzati scalava, iperboliche torri che salgono verso il cielo, lontane, eppure sempre incombenti col loro silenzio, con la loro inquietante e cara presenza. Le montagne che sono il limite del cammino di ogni ascesa terrena ed insieme soglia per il mondo del sogno, per le “Terre del Nord”, per le terre dell’ignota avventura.

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È il plenilunio, è la notte, con i suoi abitanti misteriosi, con le sue luci fatte di ombre, con la sua bellezza folgorante; “la notte così immensa e bella che fa male dentro, per incomprensibili ragioni” (Conigli sotto la luna). La notte e la luna, con la sua luce che ammanta ogni cosa di un arcano silenzio e scioglie in cuore la domanda: “Perché? Perché questa bellezza senza rimedio, struggente, trasfigurazione del mondo, poesia allo stato puro? Perché? Da dove viene?” (Plenilunio).

È il condominio-termitaio o la pensione delle grandi città tentacolari, prigione grigia e anonima dell’anima; teatro del destino di mediocrità, solitudine e indifferenza dell’uomo moderno, sempre più stritolato dal ritmo vorticoso del lavoro, delle macchine, del traffico, della carriera, del boom economico, del miracolo italiano, perfino delle angoscianti compere di regali del nuovo scintillante, consumistico Natale (vedi la raccolta Il panettone non bastò).

È la guerra e il mondo militare. Il campo di battaglia della grande guerra del proprio tempo: la chiamata alla gloria, alla fama eterna, la vocazione a qualcosa di più grande, a tutto quello che fin da bambini, anzi che forse solo da bambini, si è sognato e poi ci siamo scordati (vedi Il deserto dei Tartari).

E poi, fra queste mille immagini, c’è il treno. Che ritorna frequente nei racconti di Buzzati (Direttissimo, Qualcosa era successo, …). Il treno con la sua carica romantica, con la sua forza evocativa. Il treno si riempie di significati: è la vita che passa, è il mistero della vita che passa; il mistero del tempo, tema dominante in Buzzati. Questo tempo che nelle sue pagine non è mai un fenomeno cronologico quantitativo, ma una dimensione dell’anima. Il tempo che al principio sembra sempre sterminato: una infinita possibilità di cose, eventi, arrivi, partenze, come alla stazione di inizio; uno spazio immenso, a totale disposizione, dove potrà accadere di tutto, dove accadrà tutto quello che… e poi, d’un tratto, ti accorgi che è finito; che è già passato, che è troppo tardi, che lo hai sprecato. Qualunque vita abbiano avuto i personaggi di Buzzati (che siano dei falliti o uomini che si sono realizzati) alla fine il tempo è sempre stato sprecato e resta solo l’amara constatazione di aver colpevolmente buttato via la grande occasione. Perché?

E il treno è anche la vita che, passando, va. E va, senza che sia io a guidarla. È buffo, ma a pensarci bene non ci chiediamo mai, quando prendiamo un treno, chi lo stia guidando, non lo vediamo mai, il macchinista. Ed invece siamo tutti occupati a controllare che la seduta sia comoda, che ci sia il wi-fi; e siamo preoccupati che gli altri passeggeri non siano troppo rumorosi, che il vagone ristorante sia decente; e siamo scandalizzati se il WC non è pulito e ci premuriamo che l’aria condizionata sia giusta, né troppo fredda, né troppo calda. Siamo tutti presi da come vanno le cose in questa vita, su questo treno. E invece Buzzati ci fa una semplice domanda: ma dove va questo treno e chi lo guida?

Ed appunto il treno va e se va, va verso qualcosa: la vita ha un destino. Ma questo destino cos’è? Non è in discussione che ci sia (anche se ce ne scordiamo continuamente), perché il treno corre in quella direzione ed io posso anche incamminarmi dalla parte opposta, ma il treno continuerà a correre verso quella destinazione.

Buzzati conclude così il racconto Direttissimo: “Forza, dunque, signor macchinista. Che faccia hai, come ti chiami? Non ti conosco, né ti ho mai visto. Guai se tu non mi aiuti. Sta saldo, bel macchinista, butta nel fuoco l’ultimo carbone, falla volare questa vecchia baracca cigolante, ti prego, lanciala a rotta di collo, che assomigli almeno un poco alla locomotiva di una volta, ti ricordi? Via nella notte a precipizio. Ma, in nome di Dio, non mollare, non lasciarti prendere dal sonno. Domani forse arriveremo.”

Ed ecco l’anima, lo spirito di Buzzati, tutto proteso, inquieto, spaventato anche, a volte angosciato, ossessionato spesso, ma sempre e solo teso a questo destino, chiamato da un appello che risuona in tutte le cose della vita; che è il sale della vita, ne è il gusto, la nota che rende tutto vibrante. Scrive nel racconto Vivono come se: “Intendo dire che in certe persone, in certe famiglie, in certi ritrovi, in certi angoli delle società, fortunati, esiste un patos, per cui gli atti e le parole più banali acquistano una forza straordinaria”, perché “una o più persone […] pur conducendo un’esistenza comune, vivono come se”.

Vivono come se! Come se il cuore della vita fosse questa chiamata: non la vita, ma una cosa che sta nella vita. Sta nella vita, ma chiama altrove: “Si parte!” grida il personaggio di un altro racconto, Le tre notti, svegliandosi nel cuore della notte in una squallida pensione cittadina. “Si parte!” e sveglia anche tutti gli altri pensionati e nessuno si lamenta, anzi tutti sono sollevati dall’entusiasmo, dall’indicibile febbre della partenza. Per dove? “Le Americhe!”, “Le Indie”, Su! Su! “Il Califfo ci aspetta!”.

E il racconto Vivono come se termina così: “È, a ben pensarci, proprio quello che avveniva anche a noi nei periodi più intensi e sentiti della giovinezza. Quando, pur immersi nel monotono tran tran della scuola o del lavoro, ci pungolava, senza che noi sapessimo, un presentimento di cose grandi che stessero compiendosi di là dei domestici muri o che fossero in procinto di arrivare”.

La vita, in Buzzati, si erge, si impenna oltre l’immaginabile, quando l’uomo avverte questa chiamata, questo evento che sta per accadere, questo appuntamento misterioso col Califfo, col Colombre, con i Tartari, con il regno di Anagoor. Uno ti aspetta.

Foto Ansa

Tags: dino buzzati
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