Destra e sinistra troppo simili: ecco perché vanno i partiti minori

Di Rodolfo Casadei
03 Ottobre 2011
Se in tutta Europa i partiti di massa, sia di destra che di sinistra, al governo e all'opposizione, crollano nei consensi e prendono meno voti di un tempo è anche per il cambiamento del lavoro, con i sindacati che non incanalano più le preferenze come un tempo, e per il relativismo che domina le società

Hanno fatto sensazione gli ultimi sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani: i vari istituti sono concordi nel far notare che l’erosione del Popolo della libertà, primo partito del paese alle elezioni del 2008 ma anche alle Europee del 2009, prosegue, ma il Partito Democratico, secondo partito più votato nelle due elezioni suddette, non ne beneficia. A crescere sono i partiti minori anti-sistema: Italia dei Valori, Sinistra e Libertà e Movimento Cinque Stelle. Pdl e Pd, che alla Camera nel 2008 avevano raccolto rispettivamente il 37 e il 32 per cento dei voti, oggi sono dati entrambe attorno al 26 per cento e poco più. Il voto sommato dei primi due partiti scenderebbe cioè dal 70 per cento di tre anni fa al 52-53 per cento di oggi: 17-18 punti percentuali in meno. Quello che pochi fanno notare è che lo sfaldamento dei principali partiti non è un tratto specifico del panorama politico italiano, ma un tratto comune alla maggior parte dei paesi europei.

Elezioni locali e nazionali negli ultimi due anni si sono risolte quasi sempre in Europa in sonore sconfitte delle forze di governo, a prescindere dall’orientamento ideologico della coalizione al potere: nel Regno Unito, in Portogallo e in Ungheria i conservatori hanno sloggiato dal potere i progressisti, in Olanda e in Danimarca è successo il contrario; pesanti passi indietro nelle elezioni regionali o municipali o senatoriali li hanno sofferti i partiti del primo ministro o del capo dello Stato in Francia, Spagna, Italia e Germania. Ma il fenomeno più significativo appare essere l’avanzata delle forze populiste o radicali di destra e di sinistra. Più spesso di destra: l’anno scorso alle politiche olandesi il Partito per la libertà di Geert Wilders, apertamente anti-islamico e anti-immigrazione, è balzato dal 5,9 per cento del 2006 al 15,5; quest’anno in Finlandia il Partito dei Veri Finlandesi si è classificato terzo col 19,1 per cento dei voti, a un’incollatura dai partiti di centrodestra e centrosinistra tradizionali, mentre alle precedenti elezioni aveva ottenuto solo il 4 per cento.

Il fenomeno viene da lontano, non è stato generato dalla crisi economico-finanziaria innescata nel 2008: in Germania democristiani e socialdemocratici, sommati insieme, sono scesi dal 76 per cento del 1998 al 56,5 del 2009, in Olanda la somma del centrodestra e del centrosinistra tradizionali è scesa dal 66 per cento del 1989 al 40 per cento dell’anno scorso; e persino nel paese considerato la patria europea del bipartitismo e dell’alternanza, il Regno Unito, la somma dei voti del Partito conservatore e di quello Laburista è scesa dal 76 per cento del 1992 al 65 dello scorso anno. A cosa si deve questa erosione senza soste dei partiti di massa a favore di nuove forze politiche la cui identità ideologica e i cui programmi appaiono molto eclettici? La causa più citata dai politologi è la crisi della formula dell’alternanza, logorata prima dalla fine della Guerra fredda e dal collasso dei paesi del socialismo reale, poi più recentemente dalla crisi economico-finanziaria.

Dopo il tramonto del dirigismo economico e la vittoria dell’impostazione liberista, le politiche economiche dei governi di destra e di sinistra sono diventate simili in tutta Europa. Contenere la spesa pubblica e stimolare la crescita attraverso liberalizzazioni e privatizzazioni è diventato un mantra che ha coinvolto anche partiti di sinistra come i laburisti britannici o le socialdemocrazie scandinave. La differenza principale fra centrodestra e centrosinistra è sembrata essere quella relativa ai nomi degli imprenditori e dei gruppi favoriti nelle privatizzazioni. Dopo il 2008, le politiche di austerità divenute obbligatorie nei paesi dell’euro, come anche in quelli che hanno ancora una loro moneta, risultano singolarmente simili, che si tratti del governo conservatore di David Cameron a Londra o di quello socialista di George Papandreou ad Atene. Le condizioni erano poste perché cominciasse a diventare popolare una nuova idea: che al concetto di alternanza andasse contrapposto quello di alternativa, possibile solo scartando le forze principali. Destra e sinistra si assomigliano troppo, perciò non basta più cambiare i politici al governo: per cambiare le politiche davvero, bisogna guardare altrove.

Altre spiegazioni puntano di più sulle trasformazioni della società: le forme del lavoro e dell’impresa sono molto cambiate dai tempi dell’economia industriale post-bellica; i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, che fino a ieri rappresentavano la quasi totalità di questi mondi e che risultavano storicamente vincolati ai partiti politici di massa, nell’economia globalizzata e nel mondo delle mille forme di lavoro di oggi non svolgono più quel ruolo di canalizzazione del voto popolare verso i grandi partiti come accadeva un tempo. A un mondo della produzione e del lavoro sempre più differenziato, complesso e non sindacalmente rappresentato corrisponde uno sfarinamento della rappresentanza politica. Sul piano più culturale, si può aggiungere che relativismo e individualismo hanno diffuso l’idea che le appartenenze deboli e cangianti, le identità a pelo d’acqua disponibili a modificarsi nel corso della vita, siano in sé un valore, un segno di vitalità e un’espressione di libertà. La frammentazione del panorama dei partiti – con la relativa crescente difficoltà di garantire la governabilità – è la logica conseguenza politica dell’egemonia culturale del relativismo post-moderno.

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