Dante Gabriel Rossetti, un pittore di spirito dantesco
Scrive Baudelaire ne i Fiori del Male: «La natura è un tempio dove pilastri viventi lasciano talvolta sfuggire confuse parole / l’uomo vi passa lungo foreste di simboli, che lo fissano con sguardi familiari». Con queste parole il poeta francese sottolinea quanto sia importante saper cogliere e trascrivere la più intima essenza delle cose, andando al di là della realtà manifesta e scavando a fondo alla ricerca di quella infinità di emozioni e stati d’animo che la natura ci trasmette. E come il poeta riesce a esprimere in versi i sentimenti più profondi, anche il pittore può scegliere di sposare questa visione della natura come sede di forti rimandi simbolici che non aspettano altro di essere colti e riscattati, per godere di una libertà compositiva che si allontana da ogni condizionamento accademico. Ecco la sintesi della poetica simbolista per eccellenza, il credo di Mallarmé, Verlaine e Baudelaire, che nella storia dell’arte può essere ascrivibile all’opera di pittori come Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), Edward Burne-Jones (1833-1898) e John Everett Millais (1829-1896), padri della Confraternita dei Preraffaelliti, quella corrente artistica dell’Inghilterra vittoriana che rinnega la lezione di Raffaello e di tutti quei pittori che hanno privilegiato la bellezza formale a discapito di una verità più profonda.
E’ soprattutto nell’arte di Rossetti che si manifesta in tutta la sua potenza questa ricerca affannosa di uno spazio simbolico contrapposto al virtuosismo compositivo della tradizione tardo rinascimentale. Le opere che questo pittore e poeta di origini italiane ci ha lasciato sono, infatti, il frutto più riuscito di una serie di suggestioni artistiche e letterarie che affondano le radici nella ricca tradizione di arte sacra italiana – da Giotto ai pittori precedenti a Raffaello – e nelle letture stilnovistiche. Ma Rossetti non rinnega mai la sua epoca di appartenenza e fin nelle sue prime composizioni pittoriche, che appartengono a quella fase iniziale del preraffaellismo definito “gotico” o “hard edge”, forte è la relazione tra gli elementi spirituali “primitivi” e iconografici dell’arte italiana e quelli passionali e inconsci del romanticismo ottocentesco. Ne è un esempio una delle sue primissime opere, la bella tela intitolata Ecce ancilla domini (1850) in cui il tema classico dell’annunciazione viene reinterpretato alla luce di un simbolismo al contempo sacro e sensuale: una giovanissima Vergine si ritrae timidamente alla vista dell’angelo che le porge il giglio; al colore bianco della sua veste, del fiore e della colomba, che alludono alla sua purezza, si contrappone il vermiglio dei suoi capelli e delle sue labbra; la sua posa è intima e sinuosa e lascia trapelare un forte sentimento di turbamento ed emozione. Quell’aura spirituale che Rossetti ardentemente ricerca in nome della verità viene qui raggiunta e sublimata dalla profonda umanità della Vergine che già incarna l’immagine stilnovistica della donna “angelicata” che il pittore svilupperà in modo più approfondito nelle opere successive. Coinvolto sempre più dalla lezione di Dante, che è per lui un modello di ispirazione non solo per quanto riguarda l’arte ma anche la vita, Rossetti crea delle splendide opere ispirate alla Vita Nuova e alla Divina Commedia, come la Beata Beatrix (1864-1870) e la Pia de’ Tolomei (1868).
La prima rappresenta la trasposizione simbolica del passaggio dalla vita terrena a quella spirituale della Beatrice dantesca che qui assume le sembianze dell’amata moglie del pittore, Elisabeth Siddal la quale, scomparsa prematuramente, incarna nel modo più assoluto l’ideale della donna amata, simbolo di un amore tormentato e sacrale, pur nelle vesti della romantica dama vittoriana. La seconda è basata sui versi finali del V canto del Purgatorio che raccontano la triste vicenda della nobildonna senese Pia de’ Tolomei che nel poema rivolge a Dante le seguenti parole: «ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma». Rossetti non rappresenta però l’incontro della donna con il poeta, ma fa un ritratto molto toccante della protagonista che, imprigionata nel Castel di Pietra in Maremma, viene presentata con una espressione pensierosa e dolcemente malinconica. E’ una immagine ricca di pathos, fra il sogno e il tetro, resa ancora più sublime dalla drammaticità della storia su cui si basa.
Sebbene il clima dantesco non abbandoni mai l’universo creativo di Rossetti, che ne rivive in modo costante il mito all’interno della propria esistenza, nelle sue composizioni più mature all’idea dell’amore spirituale e di quello platonico – destinato ad essere perduto – si sovrappone sempre più la pienezza sensuale di un amore reale e terreno. E il trionfo di questa sacra sensualità ci viene mostrato dalle due splendide opere Lady Lilith (1868) e Sancta Lilias (1874). Nella prima, che fa parte di una serie di “mirror pictures” eseguite dall’artista nello stesso periodo di tempo, la figura femminile è ritratta nell’intimità della propria camera come una classica Lady vittoriana intenta a pettinarsi allo specchio. I rimandi simbolici sono tanti, tra di essi spiccano quelli floreali come le rose bianche simbolo della passione sterile e i papaveri che alludono alla morte. Per quanto, invece, riguarda lo stile, palese è il richiamo alla Donna allo Specchio di Tiziano e al cromatismo veneziano in generale. Al di là di questa forte e manifesta simbologia erotica si cela il vero senso dell’opera: questa donna che mostra narcisisticamente tutta la sua femminilità prorompente non è altro che la più moderna interpretazione della pre-Biblica prima moglie di Adamo, Lilith, che qui non rappresenta più il male o il mitologico demone della notte, ma è l’incarnazione dell’idea di un amore terreno e divino al tempo stesso. E questo rapporto profondo tra la sacra tradizione e la lezione passionale del romanticismo viene sublimato ancora di più nella sua Sancta Lilias, che non è altro che la prima versione di quello che sarà il più importante quadro simbolista di Rossetti, La Damigella Beata (1875-1878). Qui Rossetti ritrae la giovane come una moderna icona bizantina: il suo viso in primo piano è delineato dalla sua folta chioma fulva che ha anche la funzione di distaccare la sua veste dorata dal monocromo sfondo indefinito; le sette stelle che le circondano il capo assumono forti rimandi simbolici e possono alludere sia ai sette giorni della creazione, sia alle stelle della costellazione delle Pleiadi, una delle quali, Merope – che porta lo stesso nome di una divinità-, è associata alla stessa protagonista dell’opera, a cui il pittore attribuisce un’aura divina; i tre gigli che tiene in mano possono riferirsi, infine, sia all’Annunciazione, come in Ecce ancilla domini, che alla Trinità. Siamo di fronte alla più completa arte di Rossetti, la sua ricerca si è qui compiuta e nella sua opera si suggella definitivamente quella sintesi sublime tra aspirazione spirituale e stimoli terreni, passione e trascendenza, amore e rivelazione.
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