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Cristianità e secolarizzazione nel pensiero di don Ricci

A 32 anni dalla scomparsa vale la pena di rileggere qualche passaggio di un saggio del grande sacerdote apostolo della fede in Italia e nel mondo

Rodolfo Casadei
30/05/2023 - 5:30
Chiesa
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Don Frnacesco Ricci con Giovanni Paolo II

Martedì 30 maggio saranno 32 anni che ci ha lasciati don Francesco Ricci, apostolo della fede in Italia e nel mondo, intellettuale, editore, padre spirituale che ha lasciato un segno permanente nella formazione di migliaia di cattolici italiani e stranieri. Trovo che da alcuni anni il modo migliore per commemorare la sua figura sia quello di prendere in mano uno dei rari testi che raccolgono i suoi scritti e rileggerlo, per scoprire quanto sia ancora utile e illuminante rispetto a dibattiti contemporanei ai quali lui non ha potuto partecipare e a trasformazioni sociali ed ecclesiali di cui non ha potuto essere testimone.

In questi giorni ho ripreso in mano Cronache d’Europa perdute e ritrovate, che fu pubblicato qualche mese prima della sua morte, e ho riletto l’appendice del volume, che si intitola nientemeno che “Apologia della cristianità”. Ricci non teme di misurarsi con una questione già allora oggetto di demonizzazioni e di tabù, e lo fa da par suo.

Cristianità e cristianesimo

La controversia sulla cristianità, spiega, è impostata in modo sbagliato, perché taglia fuori completamente la questione del soggetto. «Chi parla di cristianità ne parla in termini oggettivi: intende riferirsi a un esito, a un prodotto (…). Da questo punto di vista, in quanto oggettivazione prodotta (istituzioni, leggi, regole, costumi, ecc) si potrebbe identificare la relazione tra “Cristianità” e “Cristianesimo” come analogia con la relazione tra civiltà e cultura: la “Cristianità” sarebbe dunque la civiltà cristiana come esito della cultura cristiana in una data epoca».

Ma «non c’è prodotto senza che ci sia chi lo produce». «Poiché la condizione per parlare di “Cristianità” in senso oggettivo è l’esistenza di una “Cristianità” in senso soggettivo, non si vede la ragione di ridurre la stessa “Cristianità” al mero esito della produzione, escludendo o censurando il soggetto della produzione stessa. In questo caso, sarebbe giocoforza escludere qualunque aspetto di cultura nel rapporto tra l’azione dei cristiani e la civiltà. La cultura pone infatti come centrale e ineludibile il tema del soggetto (…)».

La negazione della soggettività

Ricci manifesta da subito i suoi sospetti sul senso dell’operazione “modello-cristianità”, che mirerebbe non a una revisione critica dell’azione del cristiano nel mondo, ma a negare la sua originalità e alterità rispetto ai modelli di azione non cristiani.

«Escludere o censurare il soggetto implica come inevitabile conseguenza l’esclusione o la censura dell’identità, cioè di quella originalità che pone il soggetto in rapporto con la realtà e in grado di svolgere la propria creatività, il cui principio e la cui genesi sta nella novità che, generandone l’identità, lo costituisce come soggetto di opere. La riduzione della “Cristianità” a pura oggettività prodotta, negandone la soggettività costituente e operante, non può non finire nella negazione del soggetto cristiano come tale, della sua identità e della sua creatività. Il modello-cristianità è stato allora costruito per contraddire il modo di vivere la soggettività cristiana nella storia, la stessa concezione di soggetto cristiano?».

I misfatti

I critici della cristianità potrebbero reagire respingendo l’accusa e affermando che le loro critiche mirano a una purificazione della presenza cristiana nel mondo, perché essa non sia identificata con le realizzazioni storiche dei cristiani, che spesso sono intrise di ingiustizia, peccato e oppressione dei non cristiani.

Ricci non ci sta: «I critici della “Cristianità” ricorrono all’argomento dello scandalo. Troppi e troppo gravi – protestano – sono i limiti di ogni esito storico. Duemila anni di cristianesimo offrono un quadro impressionante di colpe, di errori, ingiustizie e violenze, crimini e misfatti compiuti dalla “fu Cristianità”. Come è possibile pensare che il cammino della Chiesa nella storia possa continuare a vedere il ripetersi di un modello che si è reso colpevole di vere e proprie contro-testimonianze, che contraddicono la purezza del Vangelo e ostacolano nei cuori l’attesa del Regno? L’argomento è più rumoroso che convincente. In esso è più riscontrabile un moralismo puritano che un umanesimo cristiano, più utopia che fede. L’uomo infatti non è capace di perfezione nella sua opera, la sua opera non può procedere che per approssimazioni verso l’immagine compiuta».

Non ci si può astenere dall’opera

Da qui Ricci deriva una provocazione, un paradosso e un’idea di libertà dall’esito: «Un cristianesimo vissuto senza il rischio delle opere, senza il coraggio della creatività e senza l’umile coscienza della relatività e provvisorietà di ogni esito umano, sarebbe più anti-evangelico di qualunque “Cristianità” zeppa di errori e indecenze. (…) Per quanto ciò possa sembrare paradossale, il cristianesimo porta in sé la necessità dell’operare come una conseguenza inderogabile della fede in Cristo morto e risorto, e la consapevolezza della relatività incorreggibile del suo esito, consapevolezza che ha il suo principio nella stessa fede nel già della vittoria di Cristo sul male e sulla morte. Questo paradosso rende possibile l’impresa della civiltà cristiana, la rende anzi necessaria. Nessun successo, come pure nessun insuccesso dell’opera sono più forti del suo principio. L’esito positivo esige dal cristiano lo stesso distacco che gli è chiesto dall’esito negativo; il suo cuore non può avere come tesoro il frutto delle opere, ma solo il Signore che dà la vita. Ciò che il cristiano non può permettersi è l’astenersi dall’opera, per timore dell’insuccesso, paura dell’errore e codardia di fronte al rischio».

Una società non moderna

A chi vede nella cristianità una realtà di subalternità della fede agli interessi politici, di riduzione del cristianesimo agli orizzonti del potere, a partire dall’epoca costantiniana, risponde che «quell’immagine costantiniana di un cristianesimo confuso con il potere politico e ad esso subalterno sembra piuttosto adattarsi ad epoche più recenti che non quella dell’antico Imperatore: a quella confusione tra trono e altare prodotta dalle riforme protestanti – la luterana, la calvinista, l’anglicana – che (…) gettarono il particolarismo delle nuove Chiese separate in balia del potere politico e della sua volontà di potenza».

In altri capitoli dello stesso libro Ricci afferma che l’Ancien Régime non rappresenta un’espressione di cristianità, ma costituisce, al contrario, un momento di secolarizzazione del cristianesimo. Ed è alla questione della secolarizzazione che Ricci dedica i passi successivi della sua analisi: «Per farla breve, l’ipotesi che emerge dall’insieme delle osservazioni fin qui fatte, è che l’intenzione nascosta dietro l’ovvietà del senso manipolato sia quella di escludere la possibilità di un vincolo tra fede e storia, tra il cristianesimo come soggettività reale e la società come spazio umano. In questa ipotesi, la “post-Cristianità” appare come una formula legata alla secolarizzazione e da essa dipendente. A sua volta, la “Cristianità” sarebbe l’equivalente di una società non secolarizzata, quindi non moderna, occlusa perciò alle grandi conquiste dell’umanità, avversa all’emancipazione dell’uomo e della società, arretrata, reazionaria, medievale. Nonostante tutti gli sforzi fatti in questa direzione, nessuno è però ancora riuscito a dimostrare che la secolarizzazione sia un’ipotesi cristiana sul cristianesimo e sul suo futuro. Più verosimile appare l’ipotesi che si tratti di un’interpretazione del destino storico del Cristianesimo pensata dai suoi avversari, da chi cioè è disposto ad accettare l’esistenza della fede cristiana e a concederle una certa cittadinanza nel mondo a condizione che essa accetti di perdere ogni carattere di novità e di irriducibilità (…) e ad accogliere alcuni dei postulati fondamentali della modernità, in una parola a lasciarsi secolarizzare».

La secolarizzazione

Quindi Ricci spiega perché la secolarizzazione non potrà mai essere un processo che va a vantaggio della testimonianza cristiana. Ed è uno dei passaggi più suggestivi del suo breve saggio: «La secolarizzazione implica tra le condizioni del suo realizzarsi una forma particolarmente netta e irreversibile di separazione tra la fede e la vita, e in particolare tra la fede e la vita sociale. Una società è veramente secolarizzata quando la fede si autolimita alla sfera privata, non eccede i limiti della coscienza individuale, rinuncia ad assumere forma pubblica e sociale, non pretende di possedere un carattere normativo e rinuncia ad interferire nei meccanismi di funzionamento e nei processi di trasformazione della società. Non che i cristiani siano esclusi come tali dalla partecipazione alla gestione delle cose del mondo e alla costruzione della storia, ma nel momento in cui intendono farlo, essi debbono accettare le regole del mondo e appartenere alle aggregazioni legittime della società, tra le quali non figura di diritto e neppure di fatto l’appartenenza a Dio e alla Chiesa. (…) L’argomento potrebbe essere tradotto in questi termini: è proprio vero che dobbiamo liberare la fede dal suo nesso con la vita e con le opere; l’esperienza storica dei cristiani che hanno commesso tanti errori e tante nefandezze lo dimostra abbondantemente. Smettiamola dunque di pretendere di essere soggetti attivi della storia e di costruire una presunta “civiltà”. Ne verrà un bene per noi e per tutti. Dietro la sua apparente ovvietà innocentista, l’argomento contiene una spaventosa menzogna. (…) La dimensione sociale dell’avvenimento della fede, intrinseca alla fede perché intrinseca all’uomo, si manifesta nella formazione di un “ethos” che porta con sé come caratteri essenziali l’essere generato dalla fede e l’esse integralmente umano. Con il termine “ethos” non si intende un insieme di norme morali che derivano dai princìpi della fede e svolgono il loro carattere normativo in forma di leggi o di precetti morali. “Ethos” indica piuttosto il carattere sociale dell’appartenenza fondamentale, dice relazione a una concreta comunità umana, interpreta una realtà di popolo nei suoi fattori costituenti. (…) L’”ethos” cristiano come forma sociale dell’avvenimento della novità della fede è, in sé, principio generatore di cultura. Il passaggio dalla fede alla cultura non è opera di “mediazioni”, esso è invece esito inevitabile dell’inevitabile nesso tra la novità della fede e il generarsi di forme umane nuove in chi e tra chi le vive. (…) Se si combatte la “Cristianità”, non si può evitare di rifiutare la consequenzialità organica di fede-”ethos”-cultura. E non serve appellarsi alle nefandezze dell’”epoca costantiniana” per legittimare quel rifiuto. Il passaggio dalla cultura alla civiltà è di per sé ipotetico, provvisorio, correggibile, riformabile. La civiltà cristiana non è l’ipostatizzazione sclerotica di esiti contingenti dell’azione cristiana nella storia. Essa appare piuttosto come la traccia effimera del passaggio nel tempo e nello spazio di un soggetto portatore di una novità radicale dentro la vicenda mondana: il popolo dei credenti in Cristo. In questa traccia la sua fede si mescola con i suoi peccati, lo Spirito con la carne, la gloria con l’infamia. Per questo il Popolo di Dio è un popolo di uomini, non un coro di chierichetti; una comunità umana affascinante, non un’astrazione senza terra e senza tempo. Ma se si rifiuta il nesso tra fede e “ethos”, è perché si vuole sciogliere il nesso fra fede e morale, separando la sfera del credere dalla sfera dell’agire, lasciando così l’azione libera di dipendere da un altro principio e di obbedire ad altre regole. La secolarizzazione camuffata da “post-Cristianità” esige infatti che l’azione del cristiano non abbia la propria origine nell’appartenenza al soggetto comunionale cristiano, che essa non sia una “praxis” che nasce e si nutre nell’”ethos” della fede. Essa deve al contrario rispettare le regole del mondo, appartenergli nella genesi e nei fini. Solo se si rispetta questa regola, il cristiano può vedere riconosciuto il suo diritto ad appartenere alla società e a partecipare alla storia, nonostante il suo essere cristiano».

Conclusione: «Non si tratta né di ripetere un modello del passato, né di copiare gli esiti delle opere dei padri; non si tratta nemmeno di progettare esiti nuovi, né di giocare la carta del successo. Si tratta invece semplicemente di riattivare il nesso tra fede e vita, tra “ethos” e “praxis”, tra cultura e civiltà. Si tratta innanzitutto di ricostruire la soggettività della fede, perché da essa possa riprendere a fluire la creatività delle opere. Non per un progetto di potere ma per obbedienza alla regola della fede, che vuole, anzi esige, le opere per non morire (come avverte l’apostolo San Giacomo)». Oh, quanto si sente la mancanza di un don Ricci oggi!

Tags: cristianesimocristianitàdon francesco riccisecolarizzazione
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