Il Deserto dei Tartari

Cosa non mi convince della nuova traduzione del Padre Nostro

Domenica a Messa reciterò la preghiera del Padre Nostro nella nuova traduzione che sostituisce «non ci indurre in tentazione» con «non ci abbandonare alla tentazione», ma con la solida riserva mentale che la mia preghiera non sottintende in alcun modo che Dio non ha nulla a che fare con le tentazioni della mia vita. Non sottintenderà che, come ripetono tanti, “le tentazioni non arrivano da Dio, perché Dio è buono e quindi non può desiderare di farci peccare”, “le tentazioni sono opera del diavolo” (dice chi crede alla sua esistenza personale, cosa che oggi non si può dire di tutti i cattolici). Non buttiamo tutto addosso al diavolo, Dio c’entra eccome con le tentazioni in cui spesso ci troviamo. Certo, non arrivano direttamente da Lui, arrivano indirettamente, come conseguenza del fatto che ci mette alla prova. Ma a uno o a una che col suo comportamento mette alla prova la mia pazienza, la mia amicizia verso di lui o di lei, la mia fiducia, il mio amore, la mia stima, ecc. io posso ben dire: «Non mi indurre in tentazione!».

Chi si ritrova senza problemi nella nuova traduzione normalmente cita la lettera di Giacomo 1,13-16: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte». Niente da dire: la tentazione è il prodotto delle passioni che proviamo, non è suscitata direttamente da Dio. Ma è evidente che alle passioni disordinate che già albergano in noi se ne aggiungono spesso altre in conseguenza delle prove che Dio ci manda. Cosa provereste se Dio vi chiedesse di sacrificargli il vostro figlio maschio, come fece con Abramo? Cosa provereste se vi facesse perdere in poco tempo tutti i vostri beni, i vostri cari e la vostra salute, come accadde a Giobbe? Ira? Delusione? Sconforto? Rancore? Potrebbe succedere. E queste sarebbero le passioni che potrebbero portarvi alla tentazione di non credere più, di non amare più Dio, di sfidarLo, di maledirLo. Impossibile sostenere che Dio non sia indirettamente la causa delle vostre tentazioni.

«Ma dietro a quei sentimenti che portano alle tentazioni c’è il diavolo; se uno è in Grazia di Dio quei sentimenti non sorgono o comunque non sono impetuosi, se invece uno non lo è il diavolo trova le condizioni propizie per attizzare quelle passioni che conducono alla tentazione». Già, ma il diavolo non può fare nulla se Dio non glielo permette. Come dice la prima lettera ai Corinti, Dio permette la tentazione e dà la forza per sopportarla. Che significa pure che il diavolo è uno strumento nelle mani di Dio, come si vede nel modo più chiaro nel libro di Giobbe. All’inizio del libro Dio e il diavolo confabulano, ed è dal loro dialogo che sgorga la decisione divina di mettere Giobbe alla prova: «Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità (…)”. Satana rispose al Signore: “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!”. Il Signore disse a Satana: “Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita”. Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo». (Gb 2, 3-8)

Chi vuole dissociare completamente Dio dalle tentazioni lo fa evidentemente per “proteggere” l’attributo della Sua bontà, che sarebbe messa in discussione da un’attitudine divina suscettibile di portare l’uomo all’esasperazione, ma Dio non è protettivo come una madre, è esigente come un padre (infatti le parole con cui Gesù ci ha insegnato a invocarlo sono “Padre nostro” e non “madre nostra” o “genitore nostro”). Un padre esige dal figlio il massimo che questi può dare, perché il massimo che può dare è il meglio per lui. Là dove la madre vorrebbe mantenere il figlio in condizioni che escludono che possa farsi male, il padre invece lo espone ai rischi che devono essere corsi perché il bambino diventi un adulto. Ed è così che agisce Dio padre con noi. Lo ha capito perfettamente Giuditta, che nell’omonimo libro dell’Antico Testamento dice: «Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, (…). Certo, come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore, così ora non vuol fare vendetta di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli stanno vicino». (Gdt 8, 25-27)

Dio castiga (parola oggi all’indice, eppure pienamente biblica) non per cattiveria o severità, ma perché vuole farci crescere, perché la maturità della nostra fede e del nostro amore per Lui realizzerebbe un’esperienza di pienezza e di grandezza che una fede o un amore troppo tiepidi e troppo facili, privi di ascesi, non possono darci. Sa bene che così facendo corre il rischio di perderci, ma scommette sulla nostra libertà in vista dei doni più grandi che ci ha preparato.

La nuova traduzione fa scuotere la testa a noi che fummo studenti del liceo classico perché non rispetta né la lettera né il senso della famosa frase. Il Padre Nostro ci è arrivato in greco, lingua dei Vangeli di Matteo e di Luca, ed è riproposto tale e quale nella Didaché, il “catechismo” che le comunità cristiane usavano già a cavallo fra il I e il II secolo. μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς, che si legge “Me eisenenkes emas eis”, significa letteralmente “non sospingerci verso”. Vedete che “eis”, che significa “verso”, appare addirittura due volte, sia nella radice del verbo che dopo come preposizione. C’è proprio l’idea del movimento, del moto a luogo. Verso che cosa chiediamo di non essere sospinti? Πειρασμόν, che si legge “peirasmòn”, caso accusativo della parola  “peirasmòs”, che significa tentazione, ma può anche essere tradotto come “prova”. Insomma, è chiaro: nella preghiera del Padre Nostro chiediamo a Dio di non metterci alla prova. Sappiamo di essere deboli nella fede e cedevoli quanto a coerenza morale, perciò Gli chiediamo di non testarci, di non saggiarci come fece con Abramo o con Giobbe. Gesù, vero uomo e vero Dio, conosceva di che pasta era fatto l’uomo, e ci ha invitati a una preghiera di grande prudenza e saggezza.

Volendo aggiornare la traduzione italiana e fugare l’equivoco, presente in quella tradizionale, che Dio possa desiderare la caduta dell’uomo, i vescovi avrebbero potuto scegliere un’espressione inequivocabile come “e non metterci alla prova”. Del resto è ciò che proponeva padre Pietro Bovati, biblista e segretario della Pontificia Commissione Biblica, in un articolo uscito su La Civiltà Cattolica un paio di anni fa (“Non metterci alla prova” – A proposito di una difficile richiesta del Padre Nostro, La Civiltà Cattolica quaderno 4023, pp. 215-227, Volume I, 3 febbraio 2018). In attesa di un augurabile aggiustamento che vada in questa direzione, pregherò secondo i termini della nuova traduzione, ma sottintendendo il senso autentico delle parole Gesù: che dobbiamo implorare Dio di non mandarci prove superiori alle nostre forze. In questo ci aiuta senz’altro Maria che, essendo madre e provando i sentimenti di una madre, certamente prega con noi e per noi che siamo risparmiati da prove e conseguenti tentazioni.

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