Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Domandatelo a un magistrato, ma se volete anche al vostro parroco. Chiedetegli: qual è il primo requisito della Giustizia, in Cielo come in Terra? L’interrogato risponderà: la proporzione tra la gravità del delitto (o del peccato) e la severità del castigo. Certo, forse in seconda battuta aggiungerà: la velocità della condanna e la certezza della pena. Ma la prima caratteristica che vi dirà, se il vostro interlocutore è degno della toga o della tonaca che porta, è esattamente questa: la proporzionalità.
Punire tutti i reati allo stesso modo non soltanto è ingiusto, ma anche irrazionale: confonde le idee, perfino ai criminali. Eppure è quel che sta accadendo in Italia. Molte delle nuove norme renziane, per esempio quelle che hanno appena aumentato drasticamente le pene per il falso in bilancio, la corruzione e il peculato, o quelle che un domani vorrebbero introdurre l’omicidio stradale (teoricamente meritorie, in pratica irrazionali), da questo punto di vista sono profondamente ingiuste. Perché non ubbidiscono affatto al principio di proporzionalità tra reato e pena.
I conti sono presto fatti: l’imprenditore o l’amministratore che altera i bilanci da oggi rischia fino a 8 anni di reclusione; chi corrompe o viene corrotto ne rischia fino a 12; chi usa in modo improprio beni pubblici (il peculato) dovrebbe andare in carcere per 10 anni e 6 mesi; e l’automobilista irresponsabile che, bevute due birre, ammazza un pedone sarà punito con pene da 8 a 12 anni di reclusione.
Una severità di pura apparenza
Se scorrete il codice penale, ma soprattutto le cronache giudiziarie, vi ci vorrà poco per scoprire che queste pene sono esattamente le stesse che nei fatti oggi colpiscono reati ben più gravi. Che ne so: il sadico che violenta un bambino, o il marito che strangola la moglie. L’Eurispes calcola che, nel nostro Paese, l’omicidio volontario sia punito mediamente con 12,4 anni di reclusione, che per un omicidio preterintenzionale si scontino in media 8,8 anni. E poiché in Italia è stato abolito l’ergastolo, un po’ come è accaduto all’inferno nei catechismi, se in Italia dovesse passare la legge che introduce “l’omicidio stradale”, anche il più crudele assassino rischierà appena qualche anno in più rispetto all’automobilista ubriaco che travolge un poveretto che gli attraversa la strada. Insomma, questo improprio rialzo del “tariffario” sta squassando la logica penale italiana.
Il proliferare di norme severe, per di più, è soltanto apparenza, spettacolo, luminaria. Di nuovo: chiedetelo a un magistrato, ma in questo caso abbiate l’accortezza di trovarne uno poco ideologico. Vi risponderà che pene più dure non servono a nulla: comporteranno soltanto processi più complessi e tempi più lunghi.
Non so se sia soltanto incompetenza del legislatore. Perché il governo progetta anche di allungare i tempi di prescrizione, cioè l’estinzione del reato in base al tempo che scorre. L’istituto, però, ha un senso giuridico fondamentale: se dal reato trascorre troppo tempo l’interesse a punirlo decade, e la Costituzione prevede che la durata del processo sia «ragionevole».
Vent’anni alla sbarra
Ovviamente, la prescrizione allungata piace ai magistrati, soprattutto a quelli dell’accusa, mentre non piace affatto agli avvocati. Resta il fatto che vent’anni di processo sono incompatibili con la «ragionevole durata». Insomma. Se governo e Parlamento davvero vogliono maggiore severità, la smettano con le grida manzoniane. Decidano piuttosto d’investire qualche seria risorsa in più nella giustizia. E accelerino i processi, che sono oscenamente lenti. Quella sì, sarebbe la prima riforma giusta della Giustizia.
Foto manette da Shutterstock