
Contare i morti non basta

Oltre seicento morti in quarantotto ore. Quattrocentottanta sotto le bombe israeliane su Teheran. Centoventi civili in Israele. E altri, senza nome, sepolti sotto la parola “necessario”. La guerra si racconta sempre da chi la comanda. E si chiude quasi sempre con questa frase: “Non potevamo fare altrimenti”. Ma davvero era l’unica strada? E se stessimo solo ripetendo l’errore più antico, cioè confondere la forza con la verità?
Hanno detto che era inevitabile. Che i negoziati non bastavano. Che l’Iran stava spingendo troppo oltre il limite, arricchendo uranio oltre ogni soglia civile. Ma non è forse la stessa narrazione che abbiamo già ascoltato prima dell’Iraq? Anche allora c’erano dossier, presunte prove, armi mai trovate. Anche allora si parlava di urgenza, di sicurezza globale, di un pericolo che cresceva nell’ombra. Anche allora, chi sollevava dubbi, veniva accusato di debolezza. Eppure, oggi, vent’anni dopo, sappiamo che quelle armi non c’erano. Ma i morti sì. E i morti non si ritirano mai.
Vuoto che produce vuoto
Si dice che Israele abbia agito per prevenire. Che fosse meglio un’azione limitata piuttosto che un’escalation globale. Meglio, dicono, che il conflitto rimanga regionale. Come se la geografia potesse fermare le conseguenze. Ma cosa accade quando la logica dell’attacco preventivo diventa norma? Quando il diritto internazionale cede alla paura? Quando ogni bomba diventa un avvertimento e ogni silenzio una complicità?
Trump era in trattativa. C’erano colloqui aperti, una scadenza fissata a Muscat, una finestra fragile ma reale. Poi l’improvviso cambio di scenario, il rumore sordo dei missili, il sospetto che la direzione non sia più americana ma israeliana. E che la reazione sia venuta dopo, non prima. Non è un dettaglio. È la traccia di un mondo in cui il centro si sposta verso gli estremi. In cui la moderazione diventa sospetta. In cui perfino la diplomazia viene guardata con diffidenza. Troppo lenta. Troppo umana.
Qualcuno dice che serve un cambio di regime. Che non si può tollerare un Iran con la bomba. Che un attacco, oggi, potrebbe evitare un conflitto più grande domani. Ma chi garantisce che un nuovo regime sarà migliore? Chi può dire che la democrazia possa nascere da un’esplosione? In Iraq, in Libia, in Afghanistan, abbiamo già visto com’è andata. Ogni volta, il disordine ha superato il tiranno. Ogni volta, il vuoto ha prodotto altro vuoto. E in mezzo, sempre, la gente.
Quelli non decidono nulla
Si contano i missili. Si calcolano gli armamenti. Si misurano le distanze tra gli obiettivi e le zone residenziali. Ma nessuno misura la paura. Nessuno ascolta chi ha il ronzio dei droni sopra la testa. Nessuno racconta chi corre con un bambino in braccio, chi non sa dove andare, chi vorrebbe solo dormire. La guerra la fanno i governi. Ma a morirci sono i vivi. I vivi veri. Quelli che non decidono nulla.
Si dice che Israele abbia diritto alla difesa. E che l’Iran sia un regime oppressivo. Vero. Ma la verità vera non è mai così simmetrica. Se lo fosse, non avremmo bisogno di raccontarla. La verità graffia, inciampa, non consola. E soprattutto non giustifica mai la morte di un bambino. Mai.
Se questa è la civiltà dell’algoritmo, della rapidità, della reazione automatica, allora forse la sola rivoluzione rimasta è la lentezza. La parola. L’ascolto. La domanda.
Quante volte si può ripetere la storia prima di smettere di chiamarla errore?
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