Con E disse De Luca appicca fuochi divini o applica paillettes?
Erri De Luca non è nuovo a trasposizioni narrative delle Sacre Scritture, ma nel più recente E disse ingaggia un vero corpo a corpo con il testo veterotestamentario, scegliendo di raccontare un episodio fondamentale del Pentateuco.
Mosè, un alpinista, di ritorno dalla montagna, perde conoscenza, è immemore della sua identità, non riconosce la moglie per effetto della sua collisione con il divino, un impatto sconvolgente e rivelatore. Quando finalmente riacquista le forze, esce dalla tenda, convoca il popolo di Israele, si pone davanti alla montagna e sulla pietra si scolpiscono i caratteri del decalogo.
La trovata di fare di Mosè un escursionista, nella variante metafisica dello scalatore, accennata nelle prime pagine, non viene successivamente sviluppata e non è giustificata dal prosieguo del racconto. È una scorciatoia dello scrittore per focalizzare più facilmente il personaggio, travasando nella finzione un contenuto autobiografico. Ciononostante, la descrizione dell’ascesa del monte Sinai attraverso la nube di condensa è tra gli esiti letterariamente più felici e coerenti del libro: il demone della precisione attizza il suo fuoco, portando la lega nobile della scrittura al calor bianco.
Nel complesso l’opera appare composita. È, contemporaneamente, un’appassionata esegesi, una partecipe drammatizzazione dello spirito giudaico, reinterpretato da De Luca, e un sintetico vademecum sulla lingua ebraica. Tra gli aspetti più sconcertanti dell’esegesi dello scrittore vi è la rivalutazione della donna, che pretende di essere una restaurazione della sua originaria importanza all’interno del progetto divino nel rispetto del testo biblico. La donna riproduce il mondo con il grembo, d’accordo, ma De Luca si sforza un po’ velleitariamente di ribaltare l’interpretazione di passi del Genesi che da sempre sono stati incorporati in una tradizione floridamente misogina. Eva è superiore ad Adamo nonostante sia ricavata da una sua costola, come un flauto d’osso, anzi, proprio perché è estratta e “costruita” dal fianco del primo uomo. Eva è più saggia e nobile di Adamo nonostante colga il frutto dell’albero proibito, anzi, proprio perché, così facendo, cedendo, cioè, non alla biforcuta dialettica del serpente, ma all’attrazione celeste, la forza contraria alla gravità, espande lo spettro percettivo degli uomini.
La seduzione esercitata dalla lingua giudaica su Erri De Luca risulta evidente dalla frequenza con cui introduce nella sua prosa parole in ebraico antico, sia a mo’ di complemento didascalico, sia in contesti metaforici. Nonostante la presenza di tali tasselli biblici sia motivata dalla volontà di ripristinare l’antica autorevolezza della parola, soprattutto, nella prima parte l’uso di parole ebraiche risulta puramente ornamentale. A essere irriverenti si potrebbe affermare che, laddove De Luca pretende di maneggiare schegge incandescenti del verbo divino, in realtà sta applicando paillette. D’altro canto si deve dire che il tentativo quasi medianico dello scrittore di resuscitare lo spirito di una lingua morta nel corpo di una lingua viva è parzialmente riuscito. Il suo italiano possiede una sorta di grazia rupestre, un’asprezza arcaica. La sua prosa così laconica e come priva di sfumato, il suo periodare solennemente cadenzato e sentenzioso trovano la loro naturale destinazione nell’argomento veterotestamentario.
Di sicuro con E disse ci troviamo ad anni luce di distanza dalla forma romanzesca propriamente detta, benché una delle caratteristiche di tale forma, che ne hanno permesso la sopravvivenza ormai plurisecolare, sia la grande ecletticità, la sua capacità di macinare generi e sperimentazioni varie. Paragoni con altre trasposizioni narrative della Bibbia, recenti come Caino di Saramago, o più datate come il mastodontico Giuseppe e i suoi fratelli di Mann sono fuori discussione. Al contrario delle due opere citate, corrette da abbondanti dosi d’ironia, E disse non dissacra, come è nel dna del romanzo, ma cerca semmai nell’antica le possibilità per una nuova sacralità della parola e non solo, della vita, si direbbe.
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