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La compravendita di organi come nuovo schiavismo

La vendita degli organi umani è eticamente accettabile? Un tema serio e complesso che merita una risposta seria e complessa

Aldo Vitale
02/07/2016 - 2:00
Società
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eutanasia-malato-ospedale-terminale-shutterstock

Lo scorso 29 giugno 2016 sulla celebre testata britannica, nota per la sua matrice progressista, The Guardian è stato pubblicato un articolo in cui ci si è chiesti se la vendita degli organi umani è eticamente accettabile.

Il problema è serio e complesso poiché non solo coinvolge questioni afferenti l’essere umano nella sua interezza, oltre che ovviamente l’etica medica, i limiti della regolamentazione etica e giuridica del mercato, la definizione stessa di cosa sia un mercato e cosa invece no e quali siano o meno i beni che possono farne parte, ma anche, perché volenti o nolenti, riguarda un tema umanamente delicatissimo come il trapianto di organi, cioè l’esperienza di alcune persone nel momento della loro massima fragilità, ovvero nel momento della malattia, della deminutio fisica a causa del malfunzionamento di parti vitali del loro stesso organismo.

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Come si sa, infatti, c’è una crescente carenza di organi da trapiantare non solo perché non abbondano i donatori, ma anche e soprattutto perché aumentano i soggetti che necessitano di organi nuovi in seguito alla accresciuta prospettiva di vita, all’incremento delle patologie croniche e ingravescenti e di quelle che, come il cancro, non hanno ancora una terapia universalmente valida.

Soltanto negli Stati Uniti e limitatamente ai reni vi è una lista di attesa di più di 100.000 persone all’anno che necessitano di un trapianto di reni e che vivono la propria vita sospese al filo di un telefono che suona spesso troppo tardi con le notizie fauste di un donatore trovato.

Ecco allora che sull’American Journal of transplantation già nel 2011 è stata avanzata, da parte di medici, giuristi e bioeticisti, l’ipotesi di contemplare degli incentivi economici per i donatori di organi.

In questa prospettiva si otterrebbero tre benefici: in primo luogo, si convicerebbero più persone a diventare donatori; in secondo luogo, ciascun donatore potrebbe essere indennizzato per l’espianto del proprio organo, ottenendo ben più di una mera gratificazione fondata sul riconoscimento e la gratitudine del paziente ricevente; in terzo luogo, si porrebbe fine al mercato nero di organi che, secondo le stime, interessa più di 10.000 operazioni all’anno soltanto per i reni.

Se, tuttavia, il compenso economico può riuscire a risolvere i tre predetti problemi pratici, ne solleva e ne genera di ben più complicati, soprattutto sotto l’aspetto etico e giuridico.

In prima battuta emerge la solita logica paradossale, già conosciuta per quanto riguarda l’aborto e poi l’eutanasia cosiddetta “clandestina”, per cui da un lato si denuncia l’accadimento di qualcosa che non dovrebbe accadere come il mercato nero degli organi, clandestino e occulto per definizione, ma dall’altro lato si pretende allo stesso tempo di fornire le cifre che indicherebbero le dimensioni del medesimo, dimenticando che se qualcosa è clandestino non se ne può conoscere l’entità, e, viceversa, qualora se ne conosca la portata non è effettivamente clandestino e dunque deve essere punito a norma di legge.

Oltre a questa premessa di carattere logico, che tuttavia sembra essere un argomento sostenuto dalla visione “liberal” e comune a differenti problematiche bio-etiche, occorre precisare che gli organi umani non possono essere venduti o affittati (come l’utero nel caso della maternità surrogata a titolo oneroso) poiché giuridicamente ed eticamente nessuno è proprietario del proprio corpo o delle sue parti.

Così, infatti, è riconosciuto dall’art. 5 del Codice Civile italiano che sancisce la indisponibilità del proprio corpo traducendo normativamente un principio giuridico ben saldo nella cultura giuridica occidentale, cioè l’intangibilità della dignità umana.

Tramite la commercializzazione del corpo o delle sue parti, infatti, si viola lo statuto di dignità della persona umana, poiché, come ha osservato un illuminista del calibro di Immanuel Kant, «nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può anche essere sostituito da qualcos’altro, equivalente; invece, ciò che non ha alcun prezzo, né quindi consente alcun equivalente, ha una dignità»; essendo l’essere umano e le sue parti non sostituibili e non suscettibili di avere un prezzo, essi hanno conseguentemente una dignità, per cui ogni volta che vengono “prezzati” se ne viola inevitabilmente la dignità.

Ciascuno, dunque, non è proprietario di sé e del proprio corpo e non può vendere se stesso o parti di se stesso nemmeno consensualmente.

Non a caso uno dei padri della scienza giuridica italiana come Francesco Santoro-Passarelli ha così ben puntualizzato: «Non esiste e non è neppure concepibile, malgrado ogni sforzo dialettico, un diritto sulla propria persona o anche su se medesimo, o sul proprio corpo, stante l’unità della persona, per la quale può parlarsi soltanto di libertà, non di potere rispetto a se medesima».

Si considerino inoltre altri due elementi, uno di carattere testuale e giuridico e l’altro di carattere etico e sociale.

La eventuale commercializzazione degli organi umani è espressamente vietata dalla Dichiarazione di Istanbul del 2008 che così solennemente sancisce all’articolo 6: «Il traffico di organi e il turismo del trapianto violano i principi di equità, di giustizia e di rispetto per la dignità umana e dovrebbero essere vietati. Dal momento che il commercio di trapianti colpisce donatori impoveriti e altresì vulnerabili, conduce inesorabilmente a iniquità e ingiustizia, e dovrebbe essere vietato».

Da ciò discende il secondo elemento di carattere etico-sociale, cioè la concreta e verosimile evenienza per cui la malauguratamente auspicata legalizzazione della vendita degli organi umani, può costituire una nuova forma di vero e proprio “classismo istologico” in cui i più economicamente e socialmente svantaggiati si ritroverebbero a vendere parti di sé facendo da magazzini di pezzi di ricambio per le classi sociali o i Paesi più abbienti in grado di acquistare i loro organi, anche e perfino senza una reale ed urgente necessità, cioè anche a scopo di semplice accumulo o riservizzazione.

Si riproporrebbe, in chiave ancor più truce, la dialettica del conflitto storico-sociale che tanto ha appassionato per due secoli la sensibilità socialista e progressista, traslando il dominio dell’uomo sull’uomo, che fino ad ora si è consumato nel solo ambito lavorativo e del controllo dei mezzi di produzione, all’ambito, ben più pregnante, dell’essere umano biologicamente considerato.

In conclusione, la legalizzazione della compravendita di organi che in tanti suggeriscono reca con sé, insomma, una nuova forma di schiavitù, creando il presupposto ideale per l’applicazione della critica alla società non libera mossa da Herbert Marcuse per il quale, appunto, «il cambiamento radicale che deve trasformare la società in essere in una società libera deve penetrare fino a una dimensione dell’esistenza umana che la teoria marxiana non ha considerato: la dimensione “biologica”».

Tags: eticamercatoorganitrapianto
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