Nel buen retiro di Ello – per riprendere la lettera di Mario Amman su Tempi della scorsa settimana – si stappavano bottiglie di Barbaresco. Mentre Luigino Amicone, a casa sua, onorava il suo ospite andando in cantina a prendere una bottiglia di Barolo d’annata. Eravamo poveri… ma belli, per ricordare un’icona in voga negli Anni Sessanta. Ma forse è più giusto dire poveri (quello sì)… e pieni di dignità. Luca Doninelli iniziava a lavorare come giornalista in un quotidiano (e non gli piaceva affatto) e il sottoscritto usciva alla sera alle undici dagli uffici di una emittente televisiva. Ci si trovava negli Appa (che sta per appartamenti in affitto degli studenti universitari fuori sede) e si mangiava pasta al pesto o con panna e prosciutto e insalata di champignon. Ma ogni volta c’era in tavola una bottiglia di vino, foss’anche il rosso acquistato alla Battagliera, che era un bar fumoso, già locanda davanti al Lambro dove aveva sostato il Garibaldi. Ricordo la sera in cui Ponzo aprì una bottiglia di Soave ancora col cellophane, vecchia di almeno 15 anni. Era imbevibile. E quella sera non cenammo. Amicone, poi, ci portava da Moscatelli in via Garibaldi, perché quello era un locale “un po’ così”, dove un vecchietto arzillo serviva vino alla mescita: Malvasia di Casorzo, Vin santo, Passito delle Lipari. A mezzogiorno si acquistava un panino e si andava a mangiarlo da Provera, il vero autentico “trani” milanese, che mesceva un Barbera viperino di San Salvatore Monferrato. Oggi tutto questo non c’è più: La Battagliera è un ristorante cinese, Provera ha ceduto il posto a Fauschon e in quanto a Moscatelli, che aveva già un vecchio juke box che mandava le immagini (lui diceva d’averlo preso a Las Vegas), non saprei.
Certo il vino era un misto di umanità varia. E da Moscatelli si andava per vedere stappare spumante, col tappo che centrava un angolo del soffito e cadeva sempre, puntuale, in un cestino. E quando portava in tavola il vassoio coi bicchieri, si stava in silenzio. Perché c’era dignità in quei gesti.
Oggi si è imbastardito tutto, caro Amman che col tuo vocione roboante ci facevi scoprire Barbaresco e Amarone. Il mio amico Carlin Petrini di Bra scrive guide sui vini, dà punteggi, si sbatte per salvare i prodotti tipici in via d’estinzione, ma poi deve organizzare il menù per la cena all’ americana con D’Alema e la Turco, servendo alla fine tazzine di caffè “Ghigo” (che è sì una marca di caffè, ma anche il nome del candidato del Polo alla presidenza della Regione Piemonte, contrapposto alla Turco). Davide Paolini scrive sul Sole 24 Ore (e non s’azzarda più – chissà perché – a parlar male dei vini barricati), esce con un libro sui giacimenti gastronomici, ma anche lui finisce col fare il giornal’oste alle cene organizzate nella settimana della moda dove contrappone la cucina dietetica di Chenot a quella grassa della sua Romagna. E questo e quello si incazzano con Raspelli & Co, che fanno i cronisti della gastronomia, senza vergogna di avere “ristoratori amici” da cui vanno a cena annunciati, magari senza pagare il conto. E poi inveiscono su chi usa metodi per immedesimarsi col consumatore come te, che viene preso in giro da una cucina furbetta, inondata di panna ieri e di pomodoro oggi. Pretendono di dire la loro – i giornal’osti – se tocchi il giovane cuoco che è un genio (o solamente un presuntuoso), che magari non sa fare neanche la spesa, se non quella dal furgone di alimenti di qualità, sempre uguali da Palermo e Bolzano, senza sapore e senza amore. Sono stato alla mensa Fiat, per scoprire l’evoluzione del gusto degli operai. Negli anni ’70 ottennero la mensa, ma solo con prodotti surgelati da consumare in vaschette d’alluminio; oggi hanno la cucina, e i prodotti surgelati che avevano allontanato, li comprano al sabato al supermercato, se non hanno pianificato una cena da Mc Donald’s o in una pizzeria dove la mozzarella di bufala è di plastica, servita su un disco di gomma. C’era più consapevolezza del gusto quando portavano la schiscetta. Ma il Potere ha tolto anche il gusto. Persino quello di guardare tranquilli il Festival di san Remo, senza il trabocchetto di una pubblicità elettorale da scacco matto a Veltroni e a Berlusconi. Noi non siamo e non saremo mai per un mondo falso; quindi grazie Mario Amman per la tua lettera. A Jovanotti, alla sua costruita ingenuità, posso dedicare soltanto una cosa scura come la Coca Cola. A te Mario, che sarai ingenuo pensando di trovare la cucina tipica a Milano, ma in fondo sei davvero leale, con gli occhi spalancati sulla verità, dedico il Barbaresco Maria di Brun dell’azienda Cà Romé di Romano Marengo. Non è servile ai gusti internazionali; è vino che ha carattere. E si beve ascoltando Beethoveen, sperando di spegnere un poco il suono dolciastro e “rucoloso” del rap.