Cina. Il coronavirus non obbedisce alla propaganda del Partito comunista
Il coronavirus terrorizza la Cina: le vittime ufficiali sono 106, gli infettati 4515 ma i numeri potrebbero essere maggiori visto che nessuno si fida delle informazioni rilasciate dal governo cinese. Il virus inoltre si è esteso in tutto il mondo, con contagi a Hong Kong, in Thailandia, Usa, Australia, Taiwan, Macao, Giappone, Singapore, Malesia, Francia, Corea del Sud, Vietnam, Canada e Nepal. A decine di milioni di abitanti è stato proibito di uscire dalle città di residenza o di prendere i mezzi pubblici, in un disperato tentativo di contenere l’espansione del virus. Ma ormai sembra tardi. Come ha dichiarato il sindaco di Wuhan, epicentro dell’epidemia, «cinque milioni di residenti hanno lasciato la città prima che scattassero le misure di sicurezza». Ora il Partito comunista cinese ha costituito un gruppo di lavoro sotto la guida diretta del premier Li Keqiang e cerca di dimostrarsi attento alla popolazione ed efficiente, ma la realtà è che il regime ha enormi responsabilità nella diffusione del virus.
PRIMA IL PARTITO, POI LA POPOLAZIONE
Il governo era a conoscenza di una polmonite virale a Wuhan fin dall’8 dicembre, ma ha aspettato il 31 prima di darne notizia e nessuna seria misura di prevenzione è stata presa prima del 20 gennaio, quando il presidente Xi Jinping ha parlato pubblicamente dell’emergenza. Perché? Una delle ragioni è tutta interna al potere comunista: dal 7 al 17 gennaio si è tenuto a Wuhan, capitale provinciale dell’Hubei, il congresso annuale con le più alte autorità municipali e provinciali. Il partito locale non voleva fare brutta figura con Pechino e così ha lasciato che si espandesse il contagio.
Non c’è dubbio che sia stato il Partito a dare l’ordine di non allarmare la popolazione, soprattutto alle porte della più importante festa nazionale, il capodanno lunare. Non si capisce altrimenti perché, con centinaia e centinaia di infettati già ricoverati in ospedale, il giornale principale di Wuhan, Wuhan Wanbao, non abbia mai parlato dell’epidemia in prima pagina prima del 21 gennaio, il giorno seguente al discorso di Xi Jinping. Prima, anzi, titolava trionfante sul banchetto per 40 mila famiglie (riunite insieme nel bel mezzo di un’epidemia!) che aveva battuto il record di maggior numero di persone servite a un singolo evento.
«È TUTTO SOTTO CONTROLLO». POI LA QUARANTENA
La censura del Partito comunista ha agito a tutti i livelli. I primi abitanti di Wuhan che hanno parlato sui social network del virus sono stati minacciati con l’arresto, accusati dalla polizia di diffondere dicerie e fake news. Wang Guangfa, esperto di malattie respiratorie, dichiarava il 10 gennaio che la situazione era «sotto controllo». Dopo 10 giorni ha dovuto ammettere che anche lui si era ammalato e il giorno seguente Wuhan, città di 11 milioni di abitanti, è stata posta in quarantena. Nei giorni precedenti alla quarantena, però, ben cinque milioni di persone se ne sono andate dalla città, rendendo dunque inutile la misura di sicurezza.
Ora Pechino assicura che ha il polso della situazione e che costruirà due ospedali in dieci giorni, mentre su internet vengono diffuse le immagini del personale medico stremato e delle file infinite in corsia dei malati per farsi visitare. Il governo avrebbe potuto agire prima, ma era troppo preoccupato dal trovare un modo per non fare brutta figura. La propaganda del Partito comunista è riuscita a mettere a tacere l’emergenza per un mese e mezzo ma il virus non ha voluto obbedire al Partito e ha continuato a diffondersi. Ora la Cina, e non solo, ne pagherà il prezzo.
Foto Ansa
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