Un flop sconosciuto di de Magistris. Storia di Rosa, messa in prigione «per un errore da scuola elementare»
“Calunnia con spudoratezza, qualcosa resterà sempre”. È con questa citazione di Francis Bacon che il libro De Magistris, il pubblico mistero di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo (ed. Rubbettino) inizia una storia di ingiusta detenzione cautelare, poco raccontata. È la vicenda di Rosa Felicetti, insegnante catanzarese, una tranquilla e incensurata vita trascorsa in provincia fino alla notte del 21 giugno 2005. Quella notte per Felicetti fu stata segnata all’incubo della malagiustizia.
L’ARRESTO. Alla porta di casa della donna bussò la polizia che l’ammanettò e condusse al carcere di massima sicurezza di Reggio Calabria. La polizia eseguiva l’ordine di fermo firmato dall’allora pm di Catanzaro, Luigi de Magistris. Si noti bene: a differenza di quello di custodia cautelare, che prima deve essere ratificato da un giudice, l’ordine di fermo è emanato direttamente dal pm, come prevede il codice di procedura penale, ma solo «quando sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga». Solo in un secondo momento il giudice per le indagini preliminari può convalidare l’arresto: Rosa Felicetti, dopo aver trascorso sei giorni in carcere, fu rimessa in libertà dal gip, quasi con tante scuse. Il 21 giugno 2011 la corte d’appello di Catanzaro ha riconosciuto l’ingiusta detenzione subìta dalla donna, un risarcimento per i danni vissuti e la responsabilità dello Stato (quindi un indennizzo monetario per la carcerazione).
TRATTA DI RUMENI. Che colpa aveva allora l’insegnante di Italiano e Storia all’istituto industriale di Catanzaro? Secondo il pm de Magistris si era macchiata di reati fra i più turpi, e avrebbe fatto parte di quella “banda” di 28 persone arrestate per associazione a delinquere, riduzione in schiavitù, traffico di esseri umani. Gli arresti sfociavano in conclusione del cosiddetto Balkan gate: per de Magistris, come lui stesso spiegò in conferenza stampa la mattina dopo gli arresti, «l’organizzazione non solo faceva entrare illegalmente cittadini bulgari, ma aveva una capacità criminale molto ampia».
Quando, però, il gip interrogò in carcere Felicetti, si rese subito conto dell’errore. La donna non aveva partecipato ad alcuna tratta di bulgari, semplicemente aveva appena assunto una badante bulgara per l’anziana madre malata di Alzheimer (lo racconterà in seguito il cronista Peppe Rinaldi), ma non l’aveva messa ancora in regola. Nella ricerca della badante per la madre aveva chiesto ad amici e conoscenti, e così fu messa in contatto con un uomo, poi coindagato insieme a lei e anche lui assolto. Felicetti è stata scarcerata e il gip ha annullato il 50 per cento dei fermi: tutto, per un errore giudiziario, anzi per quello che persino l’allora sottosegretario alla Giustizia, Luigi Li Gotti (dell’Idv, che sarà poi collega di partito di de Magistris) al Senato nel 2007 ha definito «un errore da scuola elementare».
«TOTALE INESISTENZA DI PROVE». Otto anni dopo questi fatti, Felicetti non ha ancora ricevuto l’indennizzo per l’ingiusta detenzione, e agli autori di Pubblico mistero ha ricordato l’orrore della malagiustizia. «Nel carcere di Reggio Calabria – ha ricordato – ho subìto le più profonde mortificazioni: dalla nudità, e ciò che questa significa, alla cella, alle ingiurie. Da dietro le sbarre ho visto la mia foto “delinquenziale” su tutti i Tg. Il quinto giorno, quando sono stata trasferita al carcere di Catanzaro per l’interrogatorio di garanzia con il gip, mi hanno messa in un furgone cellulare, dentro una gabbia, con le manette e sorvegliata a vista. Forse per questo soffro da allora di crisi di panico e claustrofobia. Il giorno successivo, finalmente, mi hanno fatta uscire: provai vergogna. Mia madre è morta sei mesi dopo, ma nell’ultimo periodo, forse per quanto è accaduto, non ho potuto starle davvero vicino».
È stata la stessa Felicetti a ricordare anche la conclusione giudiziaria del suo coinvolgimento nell’inchiesta: «All’udienza preliminare è stata pronunciata sentenza di assoluzione per “totale inesistenza di prove”. La sentenza è definitiva. Emerge dagli atti che la misura precautelare del fermo fu applicata sulla base di dati apprezzati poi dai giudici di merito come “infondati, equivoci, generici e comunque non concludenti”».
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