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Care le mie cornute

Un ex giornalista di Tempi, il pallino dei campi e dell’agricoltura, quattro amici, un pezzetto di terra e soprattutto quarantamila chiocciole.

Daniele Guarneri
14/12/2016 - 1:00
Società
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contea-daniele

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ho sempre subìto una forte attrazione per agricoltura e zootecnia. Di ogni tipo: frumento, mais, girasoli, vacche, maiali, galline. Sono cresciuto nelle sterminate e piattissime campagne cremonesi, ho frequentato tutte le cascine che dominavano maestose i campi vicino a casa, di nascosto entravo per curiosare, soprattutto in quelle disabitate. Però vivo a Milano, in un condominio di nove piani… ma ho un balcone ben esposto al sole. Per vedere se ero in grado di far crescere qualche verdura ho iniziato proprio da lì. Ho anche comprato dei libri dedicati all’orto sul balcone: è fondamentale nell’era del chilometro zero. Qualcosa cresceva: pomodori bucciosissimi e acidognoli, insalate d’un verde sbiadito che mi veniva male a condirle. È la città, tutta colpa di questa città. Così ho pensato di sfruttare la terra che i miei suoceri hanno a Cavi, un piccolo borgo ligure tra Sestri Levante e Lavagna. Qualche pianta di pomodoro, zucchine, fagiolini, piselli, insalate, peperoncini. Un anno dopo l’altro, il piccolo orto è diventato sempre più grande: 120 piante di pomodori, 30 di zucchine, insalate a sproposito… Ma non ero sazio. Le bestie, mancava qualche animale di piccola taglia, almeno per iniziare. Galline, conigli, quaglie? Niente da fare, su questo i suoceri non hanno ceduto. Dopo chi li cura? Già, io sono pur sempre piantato a Milano. Però ho degli amici a Chiavari e l’idea di fare qualcosa insieme non li ha colti impreparati. Ma fare cosa? Niente cose banali. Per questo abbiamo scelto una branca della zootecnia che si chiama elicicoltura. Allevamento di chiocciole, le lumache col guscio.

Si legge dappertutto: la terra può essere una delle soluzioni alla disoccupazione. Oggi il ritorno all’agricoltura è pure incentivato da cospicui fondi pubblici, europei o nazionali: un premio di primo insediamento utile a ingolosire chi ha davvero bisogno di lavorare per tirare a campare. I dati Istat lo confermano, in questi anni c’è stato un grandissimo aumento di partite Iva agricole, soprattutto fra gli under 35 e le donne. Poi i giornali si dimenticano regolarmente di scrivere quanti resistono per più di due anni e quanti invece mollano tutto alle prime difficoltà. Però è un dato di fatto: c’è tanta terra abbandonata, soprattutto in certe regioni, imparare a sfruttarla potrebbe trasformarsi davvero in una bella occasione. Ma badate bene, lavorare la terra non è solo godere del rumore delle cicale e del sole sulla pelle; dimenticatevi tutta la retorica legata al vivere a contatto con la natura per depurarsi dalle fatiche e dai ritmi della città; e poi scordatevi di potervi organizzare il lavoro solo perché state decidendo di diventare imprenditori di voi stessi: in agricoltura c’è un capo che sta più in alto di voi e se decide che piove, c’è poco da organizzare. Ultimo consiglio: il suddetto premio d’insediamento non consideratelo come un capitale per iniziare un’attività, ma come preziosa risorsa per svilupparla. Siamo pur sempre in Italia, il finanziamento arriva con i tempi della nostra burocrazia.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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lumaca

Un grande orto tutto per loro
Chi si occupa del lavoro nei campi? All’inizio c’è Alberto, mio testimone di nozze, 36 anni, sposato e padre di sette figli. Come tanti altri in Italia, Alberto è rimasto disoccupato da un giorno all’altro: fino a metà dello scorso anno era responsabile del personale in una struttura sanitaria, poi la crisi, il taglio dei dipendenti, l’accorpamento di più strutture per risparmiare e infine il licenziamento. Con noi due ci sono Davide, fratello di Alberto, poi Samuele e Alessandro. E nell’ombra e con molta discrezione anche Nanni, papà di Alberto, che ci accompagna con i suoi pazienti e fondamentali consigli.

La Contea, la nostra azienda agricola che produce chiocciole da gastronomia, è nata così. Da una necessità cui abbiamo risposto in modo assurdo ma non troppo: allevare circa 40 mila lumache che nel giro di un annetto si riprodurranno e se Dio vuole diventeranno quasi 700 mila. Da vendere a ristoratori, privati, sagre, supermercati per ricavare, col tempo, un paio di stipendi part time. Venghino siori venghino, la Contea ha sede a San Salvatore, sotto quel gioiellino del XIII secolo che è la basilica dei Fieschi. Non male come zona, tra uliveti e vigneti. Lì abbiamo della terra a disposizione, che è di Nanni, e nei campi un paio di pozzi che pescano dalle falde acqua fresca e gratuita. Va bene, cominciamo.

Ho detto che è un’idea assurda perché mai avrei pensato di iniziare ad allevare quelle bestiole che nel mio orto di Cavi ho sempre odiato, detestato e sterminato con ogni mezzo per evitare che si mangiassero tutte le verdure. Ora, invece, l’orto lo abbiamo fatto per loro: migliaia di insalate, cavoli e radicchi che le nostre chiocciole possono, anzi devono rosicchiare tutto il giorno, il più possibile, se non fossero lumache anche velocemente. Belle mie, ingozzatevi quanto volete e crescete grassocce!

La tradizione e il mercato
E poi, chi se le mangia tutte queste cornute? Sarà anche bizzarra l’idea che abbiamo avuto per rispondere all’esigenza lavorativa di Alberto, ma non è che non l’abbiamo studiata. Nonostante l’Italia sia in Europa il secondo produttore di chiocciole dopo la Francia, ha bisogno di importarne per far fronte al fabbisogno interno: i dati dicono che oltre il 50 per cento delle lumache che si mangiano nel nostro paese arrivano dall’Est Europa, dal Nord Africa, dai Balcani. E sapete bene che, se in Italia esistono regolamenti che disciplinano qualsiasi cosa, all’estero è tutto più facile e meno controllato, a discapito della qualità e della sicurezza alimentare. Quindi, un mercato che richiede chiocciole esiste, e lo spazio per entrarci e farci conoscere ce lo creeremo.

La chiocciola è un alimento presente sulle nostre tavole fin dai tempi dei romani. Negli ultimi trent’anni sono un po’ sparite perché per cucinarle serve pazienza e qualche ora di lavoro. Ora, fortuna nostra, stanno tornando in auge, soprattutto nei ristoranti stellati. Le fanno pagare un occhio della testa, conviene comprarle in Contea e imparare a cucinarle, spendete molto meno e il risultato finale sarà niente male. Soprattutto se cucinate in guazzetto, con del sugo di pomodoro, qualche patata, magari del guanciale per insaporire il tutto e quel pizzico di piccante che non guasta mai. Ed è pure un alimento dai valori nutrizionali incredibili: quasi zero grassi e una buona dose di proteine. Dietetiche, leggere, digeribili: praticamente le mangiate e dimagrite.

lumache-daniele

Specialità da beauty farm
La specie che alleviamo si chiama Helix Aspersa Muller, la più presente e venduta in Italia, tipica della Liguria. Sono animali ermafroditi, quindi dotati di organi riproduttivi maschili e femminili. Purtroppo non sono in grado di autofecondarsi, ma dopo l’accoppiamento ogni chiocciola riesce a deporre una cinquantina di uova (fanno due covate l’anno). Si possono vendere e mangiare anche le uova, le chiamano “il caviale di lumaca”. E poi c’è la bava. Pensate, quello schifosissimo viscidume che fa storcere il naso alle donne, opportunamente lavorato in laboratorio ha dimostrato di avere proprietà rigenerative e antiossidanti, riduce gli inestetismi come l’acne, le smagliature, le macchie cutanee, le cicatrici, le rughe e anche le scottature. In Giappone esistono centri estetici dove le donne vanno, si coricano e si fanno strisciare sul volto due o tre chiocciole, il tempo necessario per ammorbidire e depurare la pelle. E poi il muco di lumaca viene utilizzato anche per la produzione di sciroppi contro la tosse. Insomma, le mangi e dimagrisci, te le spalmi addosso e diventi bello.

Finora ho raccontato tutte le cose positive scoperte e imparate in un anno. Naturalmente non è tutto facile e confortante: la mortalità delle chiocciole si è rivelata più alta del previsto, gabbiani e corvacci hanno scoperto nei nostri campi un ristorante aperto per loro tutto il giorno. Il primo problema che abbiamo incontrato è che gli oltre 3 mila metri quadrati di terreno che all’inizio avevamo a disposizione erano totalmente abbandonati: immaginatevi un bosco con alberi, rovi alti più di due metri, canne di bambù e muretti a secco crollati. A ottobre del 2015 siamo entrati in quel bosco armati di motosega, falci, decespugliatori, asce, zappe e badili e in un mese abbiamo raso al suolo tutto. Non restava più nulla, nemmeno le radici degli alberi. Poi abbiamo arato il campo per ossigenare la terra, l’abbiamo ingrassata con del buon concime e dopo, in inverno, l’abbiamo fresata per preparare la semina.

Sudore e scartoffie
Come si allevano le chiocciole? Pensate a dei grandi recinti dotati di impianto di irrigazione a nebulizzazione, chiusi da apposite reti al cui interno crescono insalate, bietole, radicchi, cavoli, e dove le chiocciole pascolano liberamente, dormono il meno possibile, si accoppiano e figliano. Praticamente un orto di tremila metri quadrati, ordinato per file, pulito perfettamente dalle erbacce: un vero spettacolo. Ad aprile abbiamo immesso i nostri riproduttori che dovrebbero dare vita alla nostra “Lumaca dei Fieschi”. Nei recinti sono stati inseriti 400 chilogrammi di chiocciole, dai 33 ai 40 mila esemplari. Una volta che le fattrici hanno deposto per la seconda volta le uova, si possono raccogliere e fare spurgare per un mesetto in una cantina fresca: non mangiano, non bevono, vanno in letargo e si asciugano. A quel punto sono pronte da vendere. Quando l’anno prossimo raccoglieremo le piccole, nate in questi mesi, ci aspettiamo una produzione di circa 3 mila chilogrammi, quasi 250 mila esemplari.

A parte la fatica di tutto questo lavoro – perché la terra è bassa e dura, è difficile arrivarci e lavorarla – ho anche sperimentato tutte le difficoltà degli imprenditori italiani. Ho capito perché si parla tanto di semplificazione, di eliminare pratiche e procedure arzigogolate che fanno aumentare ogni costo. Ho capito cosa vuol dire quando dicono che in media sessanta giorni lavorativi in un anno sono impiegati per espletare pratiche assurde e ripetitive. Ci siamo iscritti alla Camera di commercio e alla Coldiretti, abbiamo aperto la partita Iva agricola e richiesto alla Asl l’assegnazione del nostro codice aziendale, abbiamo fatto la pre-domanda per ottenere il famoso contributo dedicato ai giovani, al Comune ci siamo presentati per firmare i documenti necessari per l’avvio dei lavori nei campi. E poi i contratti con tutti i fornitori in particolare con quelli di luce elettrica e acqua (non possiamo rimanere senza, quando i pozzi si esauriscono occorre avere pronto il piano B: l’acqua del sindaco) che abbiamo compilato, ricompilato perché non avevano capito che siamo una azienda e non degli hobbisti, e rispedito perché il fax era sparito dalla pila che immaginiamo essere vicino al fax (ma esiste ancora questo marchingegno?).

I primi clienti
E il famoso finanziamento pubblico legato al Piano di sviluppo rurale? Un continuo susseguirsi di notizie ogni volta completamente diverse. Si tratta di fondi europei che vengono assegnati alle singole regioni: è da ottobre 2015 che aspettiamo di capire cosa bisogna fare in Liguria. Ogni volta la data di presentazione della domanda definitiva veniva prorogata perché le procedure di selezione non erano perfezionate. Purtroppo i tempi della burocrazia non sono gli stessi del Capo. E noi dobbiamo rispettare quelli: a marzo si semina, ad aprile si inseriscono le chiocciole adulte, che si riproducono a giugno… Se avessimo aspettato i soldi del premio di insediamento non avremmo potuto fare nulla.

Nel frattempo abbiamo cominciato a promuovere la nostra attività. Facebook, Instagram, il sito aziendale e qualche evento: degustazioni, cene, mercatini agricoli. Tanta gente incuriosita, contenta dell’iniziativa, alcuni veramente entusiasti, soprattutto tra i ristoratori che abbiamo incontrato e che erano interessati a inserire le chiocciole nei loro menù alla carta. A ottobre abbiamo raccolto i riproduttori, per un mese tutti i giorni abbiamo recuperato una ad una le chiocciole che hanno dato vita alla Chiocciola dei Fieschi. Nel frattempo si sono fatti avanti i primi clienti: privati, piccole sagre popolari, gruppi di amici. E pure qualche catena della grande distribuzione. Ma soprattutto anziani, contenti di vedere le loro terre riprendere vita e forma. E di tornare a gustare quella chiocciola che da bambini mangiavano il giorno di festa. 

Tags: liguria
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