Calogero: Cosa aspetta la politica a porre fine alle violazioni nelle carceri?

Di Redazione
24 Settembre 2012
Pubblichiamo un articolo di Pietro Calogero, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Venezia, pubblicato ieri sul Mattino di Padova con il titolo "Il lavoro ai detenuti è un dovere"

Pubblichiamo un articolo di Pietro Calogero, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Venezia, pubblicato ieri sul Mattino di Padova, domenica 23 settembre, p. 1, con il titolo “Il lavoro ai detenuti è un dovere”. Il testo riprende l’intervento dello stesso Calogero ad un incontro tenutosi a Padova organizzato dal gruppo studentesco Articolo27

La mancanza o insufficienza del lavoro, sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari, unanimemente riconosciuto come fondamentale per favorire la rieducazione e il recupero dei detenuti, e l’opprimente sovraffollamento di molti di questi nelle celle – che aggiunge alla privazione della libertà una pena non prevista e illegale, quella della persistente umiliazione e finanche della perdita della loro dignità culminante, con sempre più drammatica frequenza, in atti autolesivi e suicidiari – costituiscono i problemi più gravi che rendono oggi degradante, incivile e intollerabile la condizione di vita dei reclusi in gran parte delle nostre carceri.

È innegabile che tali problemi sono stati finora affrontati e gestiti dalla nostra classe dirigente e innanzi tutto dal ceto di governo come aspetti di una progettualità politica caratterizzata dalla “discrezionalità” delle iniziative volte alla loro soluzione (dal finanziamento del lavoro dei detenuti all’approntamento di misure utili a rendere umana e dignitosa la convivenza in cella) e ispirata a prospettive ora di tipo umanitario e assistenziale ora di stampo utilitaristico sul duplice versante economico e sociale. Che tali prospettive siano in sé rispettabili e degne di apprezzamento è fuori di dubbio, fungendo da stimolo di interventi legislativi e amministrativi che, favorendo il lavoro e decongestionando l’affollamento carcerario, finirebbero per avere, se realizzati, una ricaduta positiva in termini di abbattimento della pericolosità e della recidiva, di stabile e diffuso reinserimento sociale, di risparmio dei costi di mantenimento della residua massa dei reclusi, di rafforzamento della sicurezza collettiva. È doveroso tuttavia riconoscere che, oltre a non essere state finora seguite dagli auspicati interventi attuativi se non in parte davvero trascurabile, quelle prospettive sono tutt’altro che appropriate al quadro delle disposizioni e dei principi statuiti nel vigente ordinamento. In questo, infatti, i problemi del lavoro e del sovraffollamento carcerario si profilano, correttamente, non come momenti di discrezionalità politica, ma come contenuti di un “rapporto” in cui campeggiano, inseparabilmente, il “diritto del detenuto” a fruire dello strumento rieducativo per eccellenza, il lavoro, e di una dimora idonea e dignitosa e l’”obbligo dello Stato” di provvedervi.

Trattasi di un rapporto giuridico in senso tecnico, la cui attuazione è non solo sottratta a scelte discrezionali di natura politica o umanitaria, ma è resa cogente da norme imperative ancorate a principi costituzionali. Tale è, in primo luogo, la norma dell’art.15 secondo comma dell’Ordinamento Penitenziario («Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro»), che ha il suo fondamento, su un piano sovraordinato, nell’art.27 terzo comma della Costituzione («Le pene…. devono tendere alla rieducazione del condannato»). Analoga è la struttura, poggiante anch’essa sulla relazione fra diritto soggettivo (del detenuto) e obbligo giuridico (dello Stato), che emerge dalla disposizione dell’art.1 Ord. Pen. («Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona»), che ha i suoi riferimenti valoriali nell’art.27 terzo comma della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità») e nell’art.3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («Nessuno può essere sottoposto…. a pene o trattamenti inumani o degradanti»). Vi è di più. Quelle del lavoro e del sovraffollamento in carcere non sono “questioni” ontologicamente e giuridicamente separabili dalle vicende della giurisdizione e della giustizia che comprendono, com’è noto, due grandi segmenti: il primo costituito dalla fase di cognizione (che comincia con le indagini preliminari e finisce con la pronuncia della sentenza definitiva di condanna); il secondo costituito dalla fase di esecuzione e di espiazione della pena. Nell’una e nell’altra fase la persona (dapprima indagata e condannata, poi soggetta a pena da espiare) è titolare di diritti (non di semplici aspettative o interessi legittimi) e, in quanto tale, si relaziona con l’organo statuale (pubblico ministero e giudice), che è a sua volta destinatario di obblighi (oltre che titolare di poteri) nei confronti della prima. Il primo fondamentale “diritto” della persona è quello a un processo giusto: un processo, cioè, che sia celebrato in tempo ragionevole davanti a un tribunale indipendente e imparziale, e che tuteli effettivamente i suoi diritti (artt.24 e 111 della Costituzione; art.6 della Convenzione europea). A tale diritto, che rientra fra i «diritti inviolabili dell’uomo» riconosciuti e garantiti dall’art.2 della Costituzione, corrisponde l’”obbligo” dello Stato di amministrare, a mezzo dei suoi organi, la giustizia nelle forme e nei modi stabiliti dalla legge, nonché di assicurare la “durata ragionevole” del processo. Tutti i casi di denegata giustizia (dalle sentenze di prescrizione dei reati a quelle emesse in tempi irragionevoli) costituiscono pertanto violazione non di meri enunciati programmatici e discrezionali, ma di obblighi cogenti, fonte di responsabilità risarcitoria a beneficio dei privati titolari dei diritti offesi.

Evidenti ragioni di coerenza sistematica impongono di riconoscere identica natura alle posizioni soggettive formanti la relazione fra detenuto e Stato nella fase di espiazione della pena: con la conseguenza che gli elementi fondamentali e tipici di tale fase (in primis, il lavoro come strumento essenziale del processo rieducativo e il trattamento penitenziario conforme al senso di umanità e rispettoso della dignità della persona) assumono i connotati e il valore di veri e propri diritti soggettivi (in capo al detenuto) e di veri e propri obblighi vincolanti (per i competenti poteri statali). Del resto, a queste stesse conclusioni è da tempo pervenuta la giurisprudenza della Corte di giustizia di Strasburgo, che ha ripetutamente condannato e, purtroppo, continua a condannare lo Stato italiano al risarcimento dei danni causati alle persone inquisite, per violazione del diritto a un processo di ragionevole durata, e alle persone in espiazione di pena, per violazione del diritto a un trattamento umano e non degradante. È auspicabile che anche la magistratura italiana, adita per la violazione degli stessi diritti, si conformi all’indirizzo della Corte europea, saldando il gap culturale che ne contrassegna attualmente le scelte interpretative. E, analogamente, che il nostro potere politico e legislativo prenda finalmente coscienza della necessità e dell’urgenza di por fine alle violazioni in atto nel mondo carcerario, varando senza indugio le iniziative e le misure da tempo “dovute” in adempimento di obblighi costituzionalmente sanciti.

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1 commento

  1. ….il carcere è duro …è duro in ogni caso …ma ..ancor di più …con chi lo fai …celle singole sono metà carcerazione …dice un vecchio carcerato… e….se dieci anni vi sembran pochi ….leggetemi su wwwcuoreincarceratoit…..

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