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Calciopoli. E se lo scandalo fosse il modo con cui ce l’hanno raccontato?

Pagine e pagine di verbali al veleno. Moggi&co già condannati prima delle sentenze. Ecco, cosa è successo prima che Juve, Lazio, Milan e Fiorentina finissero alla sbarra

Emanuele Boffi
20/07/2006 - 0:00
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Con una certa dose di saggezza rusticana Giuseppe Di Pietro gli confidava: «Figlio mio, se vai con un ladro, allora anche tu sei un ladro». E il figlio, che ha fatto prima il pm con grande successo di pubblico, poi il politico con minor incasso di consensi, ha reso il monito del padre una ragione di vita. Ma se dopo aver rovesciato il calzino italiano, se dopo aver usato la carcerazione preventiva come metodo d’indagine, se dopo aver preteso che tutte le mani fossero pulite, oggi, Antonio Di Pietro, si fa qualche scrupolo a far di ogni uomo un ladro, allora qualche domanda, anche i più rancorosi fra i giustizialisti, dovrebbero porsela.
«Le intercettazioni sono come il bisturi in mano al chirurgo: necessarie per sconfiggere il male, pericolose se usate da soggetti diversi dal chirurgo, drammatiche se usate dal chirurgo per ammazzare la moglie» (Repubblica, 20 giugno)
E se, come lui, anche il segretario dell’Anm ed «esponente di spicco di Md» (Magistratura Democratica, associazione di sinistra), Nello Rossi, ha qualche remora professionale a leggere tutti i santi giorni verbali o intercettazioni, forse qualche quesito anche i giustizialisti di destra e sinistra dovrebbero porselo.
«Assisto sempre più di frequente alla massiccia e indiscriminata pubblicazione di intercettazioni provenienti da indagini in corso. Sono preoccupato come magistrato e indignato come cittadino»; «le intercettazioni sono un mezzo d’indagine estremamente invasivo. E perciò vi si ricorre solo per reati gravi. Sono previsti rigorosi divieti nell’uso e garanzie per l’ascolto e l’acquisizione nel processo»; «si leggono pagine e pagine di intercettazioni di conversazioni che coinvolgono anche persone del tutto estranee all’inchiesta e di cui spesso si stenta a comprendere la rilevanza ai fini del processo»; «così si lede, in modo inutile, crudele, spesso irrimediabile, la dignità degli indagati, per cui vale la presunzione di innocenza, e l’onore di persone che non hanno commesso reati»; «di qui la necessità di regole più severe e incisive. Per tutti, giornalisti, magistrati, poliziotti, avvocati.
Dall’aumento delle pene per la rivelazione di segreti d’ufficio, alla prevenzione di meccanismi che rendano più fruttuose le indagini sulla violazione del segreto»; «il nostro codice deontologico stabilisce una regola semplice, da rispettare sempre: il magistrato non parla dei propri processi». (Rep., 19 giugno)
E, forse, tutti gli antifascisti dovrebbero meditare le parole di chi una certa esperienza politica ha dimostrato di averla:
«Siamo di fronte a una demonizzazione. Il nostro è un paese di garanzie civili. Per ora conosciamo solo le notizie di stampa, peraltro enfatizzate con questo sistema di dare pubblicità ad intercettazioni, un sistema barbaro. Le leggi sulla violazione del segreto istruttorio non trovano mai condanna per chi le ha violate. Pensavamo che le intercettazioni fossero una prerogativa del regime fascista e invece, evidentemente, non è così». (Corriere della Sera, 22 maggio)
O quelle di chi oggi, risponde alle lettere dei lettori del Corriere, da quel pulpito che fu di Indro Montanelli:
«è giusto che circolino nella stampa trascrizioni più o meno integrali in cui notizie utili all’indagine sono sommerse da un torrente di pettegolezzi, maldicenze, allusioni, vanterie goliardiche e faccende personali prive di qualsiasi rilevanza penale? La mia risposta a questa domanda è: no, non è giusto». (Corriere, 27 giugno)
E se tutto ciò non bastasse, pur non volendo insegnare la giustizia ai giustizialisti, basterebbe citare la lettera della legge:
«è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti da segreto o anche solo del loro contenuto» (articolo 114 del Codice di procedura penale)
IL DISGUSTO DI AUGIAS
Premessa necessaria e sufficiente è che il più sano ha la rogna. «Non sono uno stinco di santo» ha detto Luciano Moggi, ma questo non è bastato ad impietosire Corrado Augias, che, rispondendo a un lettore, scrive: «Lo dico con brutalità, le lacrime di Moggi davanti ai carabinieri e ai magistrati mi hanno suscitato un forte senso di disgusto» (Rep., 20 maggio). Mentre l’ammissione è servita a Maurizio Crosetti per spiegare che c’è rogna e rogna e quella di Moggi è rogna d’asino:
«Una volta, all’avvocato Agnelli che non si era mai fatto fotografare accanto a Moggi, ma che lo utilizzava eccome e con soddisfazione, chiesero in confidenza perché usasse un simile personaggio. Agnelli rispose: “Lo stalliere del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli”. Peccato che lo stalliere ormai si fosse messo in proprio. Peccato che quei cavalli, alla fine, fossero asini». (Rep., 12 maggio)
Asini che vivevano attorniati da una corte di lacché che si tenevano buoni con regalìe di ogni tipo. Il Corriere della Sera del 24 giugno, in un articolo a tutta pagina titola: “I regali degli arbitri: champagne, salumi e orologi di marca”. Leggendo le frasi riportate nei verbali si scopre che di champagne e salumi si parla in relazione a cesti natalizi e che per gli orologi non vi sia alcuna prova che siano stati donati dai dirigenti.
Che Moggi abbia mostrato preoccupazione per la sorte del figlio, Alessandro, dirigente della Gea World, non muove a compassione i critici. Per Gad Lerner, infatti, si tratta solo di «Amici degli amici, figli dei padrini, più o meno come nella mafia» (Rep., 23 maggio).
è proprio il paragone con l’onorata società ad andare per la maggiore. Non solo nell’ironia livorosa degli striscioni da stadio che compaiono su tutti i campi di serie A nell’ultima partita di campionato (“Pronto sono Luciano, liberate Provenzano”, “Moggi usa i pizzini”, “Luciano baciamo le mani”) ma anche nella definizione di “cupola” con cui si indica il “sistema Moggi” (fra i pochi a indispettirsi Giovanni Trapattoni: «Chi si indigna è un ipocrita, parlare di cupola è un’esagerazione», Rep., 20 maggio).
«Questo scandalo è peggio di tutti gli altri, è il più ramificato ed il più simile (ammazzamenti esclusi) ai metodi mafiosi» (Gianni Mura, Rep., 22 maggio)
Un sistema che viene processato minuziosamente sulla stampa e un po’ frettolosamente nell’aula del tribunale.
«In settemila pagine non c’è traccia di una mia telefonata con Moggi. Sono stato giudicato sui giornali e sulle tv. Gli sviluppi delle indagini li ho conosciuti andando in edicola» (Massimo De Santis, Corriere, 24 giugno)
Pure Repubblica – che da maggio a oggi non si risparmia nella pubblicazione delle intercettazioni e negli attacchi ai protagonisti di Calciopoli – ha qualche dubbio:
«Al processo non sono stati ammessi testimoni. Anche il peggiore dei criminali ha diritto a una testimonianza a favore»; «la partenza sprint del pm Palazzi è stata un passo avventato»; «è singolare l’impostazione del dibattimento. Strano che nessuno faccia domande (…) si entra poco nel merito. Comprensibile la velocità, ma nell’80 (scandalo calcio scommesse, ndr) e in tanti altri casi, le Commissioni giudicanti andavano a notte fonda» (Rep., 6 luglio)
Proprio paragonando l’attuale processo a quello che lo vide protagonista come capo ufficio indagini sul calcio scommesse, Corrado De Biase dice:
«Sui giornali ho letto solo frasi staccate, non mi pare di aver letto di un illecito sportivo per alterare il risultato. Di partite comprate o vendute non mi sembra di averne viste»; «Quando sento dire dal commissario Rossi che farà tutto lui e che può arrivare a giudizio anche senza interrogare, c’è qualcosa che non torna» (Rep., 20 maggio)
Lo stesso De Biase, in un’altra intervista, commenta la frase di Francesco Saverio Borrelli che ha parlato di «illecito strutturato» come reato commesso da Moggi e soci:
«Si parla di illecito strutturato. Ma che cos’è? Non esiste. Si vuol far capire che c’è qualcosa di diverso, di anomalo. Ma illecito strutturato proprio no. Esiste l’illecito sportivo. Non si può parlare di cose che non esistono nell’ordinamento giudiziario sportivo»; «La dimostrazione dell’illecito sportivo io ancora non l’ho vista. (…) Fino a oggi quello che vedo è la violazione dell’articolo uno del codice di giustizia sportiva, che impone ai tesserati di comportarsi secondo i princìpi di lealtà, correttezza e probità. (…) Però quello che abbiamo letto fino a oggi a me non dimostra che c’è stato il tentativo di alterare una partita» (Il Foglio, 22 giugno)
L’avvocato Gaetano Scalise, difensore dell’arbitro Gabriele e dell’ex designatore Bergamo dichiara: «Il commissario straordinario della Figc ci ha concesso solo tre giorni per studiare migliaia e migliaia di carte e presentare memorie. Non so se mi spiego» (Corriere, 24 giugno).
D’altronde la Procura di Torino che per prima aveva visionato tutte le intercettazioni aveva archiviato il caso in quanto «le ipotesi accusatorie sono senza riscontro» e per «l’assenza di alcuna utile informazione sull’eventuale corruzione». Lo ribadisce anche Marcello Maddalena, procuratore della Repubblica di Torino in una lettera al quotidiano Repubblica che il giorno precedente l’aveva accusato di «timidezza investigativa». Scrive Maddalena che dalle intercettazioni non erano «emersi elementi di prova tali da confermare l’originaria ipotesi investigativa (corruzione di pubblico ufficiale) per cui le stesse erano state autorizzate». E d’altronde, come dichiara Borrelli, nel giorno degli interrogatori degli arbitri, «non ci sono pentiti» (8 giugno). Però c’erano già i colpevoli.
E di Giraudo che dice di un arbitro “se è furbo dimezza l’Udinese” cosa pensa? «Mi sono divertito a scaricare da internet gli orari delle telefonate. E se li controllate anche voi, capirete tutto». La telefonata era successiva alla partita incriminata? «Proprio così» (intervista all’arbitro Massimo De Santis, Rep. 9 maggio)
Siamo in buone mani. Perché, come spiega Giorgio Bocca:
«La nomina di Borrelli a dirigere le indagini sul grande scandalo del calcio è la cartina di tornasole, il reagente chimico, la prova della verità, la caduta delle menzogne, il re nudo del popolo berlusconiano che “non molla”, che non tollera ritorni alla giustizia, che concepisce la democrazia solo come alleanza delle cosche più forti e più ricche» (Rep., 24 maggio)
Né, d’altronde, alcun dubbio può essere mosso sulla figura super partes di Guido Rossi. O forse solo uno:
«Mi chiedo come mai la pubblicistica italiana dica ogni abominio possibile sul potenziale conflitto di interessi di Adriano Galliani presidente di Lega e dirigente del Milan, ma non adoperi lo stesso criterio nei confronti di Guido Rossi, commissario straordinario della Federcalcio ed ex dirigente dell’Inter di Moratti dal 1995 al 1999, e di Gigi Agnolin, nominato Commissario degli arbitri ma pur sempre ex dirigente della Roma dal 1995 al 2000 (al posto di Moggi, guarda che combinazione)». (Christian Rocca, ilfoglio.it/camillo, 3 luglio)

se si arrende anche mike
Alla luce di queste parole e dopo i fasti mondiali, a rileggere certe dichiarazioni vien quasi da piangere dal ridere. «Il mondo del calcio è marcio» (Zdenek Zeman, 13 maggio), «Il vero scudetto della Juve sarebbe restituire lo scudetto» (Francesco Merlo, Rep., 16 maggio), «La mia Juve senza telefonini. Con Agnelli contavano onestà e sacrifici» (Zibì Boniek, Rep., 16 maggio); «L’hanno fatta grossa. Il profondo disagio di tifare Italia non riusciamo a togliercelo di dosso» (L’Unità, 19 maggio); «Dati i sospetti, la Figc, o lo stesso ct, dovrebbero dare un segnale chiaro. Ad esempio la sospensione dell’allenatore» (Il Riformista, 19 maggio); «Lippi, Buffon e Cannavaro devono tornarsene a casa» (Il manifesto, 19 maggio); «La Nazionale farebbe meglio a starsene a casa» (La Padania, 19 maggio); «Lippi e Cannavaro, per favore: lasciate o spiegate. (…) I protagonisti del calcio italiano devono mettersi in testa una cosa: dopo quello che abbiamo letto o sentito, l’età della deferenza è finita» (Beppe Severgnini, Corriere, 20 maggio); «La Nazionale è la Nazionale italiana, non la Nazionale della Gea. Lippi deve dimettersi» (Beppe Grillo, 20 maggio); «Lippi si faccia un esame di coscienza» (Gigi Simoni, 20 maggio); «Quelli del calcio scommesse, al confronto erano ladri di galline» (Paolo Rossi, Rep., 21 maggio); «Con Lippi ci presentiamo in una situazione imbarazzante» (Gianni Mura, Rep., 21 maggio); «Serve un atto di umiltà, il ct non se la può cavare parlando solo di calcio, le intercettazioni non ce le siamo inventate noi giornalisti» (Roberto Beccantini, La Stampa, 21 maggio); «Come presidente della Figc avrei voluto Zeman» (Daniele Capezzone, Corriere, 24 maggio); «Dopo 75 anni di fede juventina, abbandono» (Mike Bongiorno, Chi, 24 maggio); «Gesto nobile, ma sulle intercettazioni sbaglia» (l’associazione “Libertà e giustizia”, commentando le dimissioni del suo affiliato Franzo Grande Stevens da presidente della Juventus che aveva osato dire: «La privacy è stata violata», 25 maggio); «Parole fuori posto» (titolo di un commento non firmato apparso sul Corriere a fianco dell’articolo “Cannavaro: «Moggi? Facevano tutti così»”, 25 maggio); «Chiediamo un risarcimento per ciascun tifoso di 2.500 euro» (Codacons, 25 maggio); «Non dovevamo andare in Germania» (Aldo Nove, 31 maggio); «Tifo Ghana» (Andrea Pinketts, 31 maggio); «Sono con l’Italia senza entusiasmo» (Nando Dalla Chiesa, 31 maggio); «Tifare africano» (titolo di Alias, supplemento del Manifesto). «è un’occasione storica, non possiamo sciuparla. Siamo di fronte alla possibilità di processare, finalmente, tutto il calcio italiano. Le intercettazioni? Non bisogna demonizzarle. L’importante è usarle bene. Senza offendere le persone» (Diego Della Valle, Corriere, 24 giugno); «Levate quella fascia a Cannavaro. Signor commissario, ci ascolti, ascolti i tifosi di calcio. Questo non è un capitano, questo non è il nostro capitano, questo non è il capitano di una Italia che cerca di uscire dal più grande scandalo pallonaro della sua storia mostrando una faccia pulita» (Riccardo Luna, Il Romanista, 25 maggio); «Scudetto da assegnare. è un premio per chi rispetta le regole» (Massimo Moratti, presidente dell’Inter che falsificò il passaporto a Recoba, Corriere, 25 giugno); «Che questa fosse una squadra mediocre, lo penso da tempo e per una banale ragione (…). E se Lippi è un genio del pallone, almeno a un Nobel può aspirare anche il mio portinaio di Milano» (Vittorio Zucconi, Rep., 18 giugno).
E, infine, la più sublime:
«Mi farebbe piacere non vedere Totti in questa nazionale… O meglio: lo vorrei come capitano, in un’Italia senza Cannavaro, Buffon e Lippi. Saremmo dovuti andare in Germania col lutto al braccio perché il calcio è morto» (Claudio Amendola, Corriere, 2 giugno).

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