Dal palco del congresso dei Popolari europei Silvio Berlusconi si è candidato a dieci anni di premiership, dicendo che nella sua ricetta per l’Italia intende ispirarsi al modello inglese inaugurato vent’anni fa da Margaret Thatcher. Vi ricordate, cari lettori, le nostre copertine inneggianti a quella Lady di ferro che la pubblicistica ha presentato come simbolo di un’epoca archiviata? Ci fa piacere aver anticipato, nel nostro piccolo, questo passaggio con cui il leader della Casa delle Libertà ha posto la sua auspicata vittoria elettorale sotto il segno della statista che andò a un memorabile scontro con i conservatori di destra e di sinistra e che diede alla Gran Bretagna, malinconicamente alla deriva agli inzi degli anni ’80, quella rivoluzione che l’ha saldamente ricollocata al centro della politica e dell’economia internazionale. Rivoluzione la cui ora potrebbe finalmente scoccare anche in Italia.
Margaret Thatcher ha fondato la sua politica sull’idea che “la società non esiste. Ci sono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie”. Questo realismo politico è un fattore estraneo a quel coacervo di giustizialismo e sociologismo moralista che ha imperversato in questi anni in Italia. Gli esempi? I governi del centro-sinistra si sono impegnati a implementare i cosiddetti diritti di cittadinanza ponendo sullo stesso piano realtà che non lo sono affatto. In un’ansia di egualitarismo astratto e senza rispetto dei fattori essenziali che presiedono alla realizzazione di una qualsiasi comunità umana, i diritti individuali sono stati tendenzialmente omologati (per esempio quelli riguardanti le coppie di fatto e gay a quelli della famiglia tradizionale) facendo assurgere la diversità a norma e la norma naturale a cascame di una tradizione priva di razionalità, se non oscurantista. In concreto ciò ha prodotto un’indifferenza legislativa nei confronti delle famiglie, mentre nel contempo, alle stesse famiglie, attraverso un prelievo fiscale record in Europa, si richiedeva e si richiedono sacrifici enormi e, di fatto, di portare il peso del rientro dal debito pubblico e del finanziamento delle spese dello Stato.
La “purga thatcheriana” fu la deregolamentazione di lavoro e mercati del capitale, la privatizzazione di quelle industrie nazionalizzate che lo stato britannico aveva assunto come risultato della guerra, della depressione economica e dell’ideologia socialista. Il risultato? Dice la Thatcher e confermano i dati macroeconomici: “Abbiamo ridotto il deficit governativo e abbiamo ripagato il debito. Abbiamo fortemente tagliato la tassa sul reddito di base e anche le tasse più alte. E per far ciò abbiamo saldamente ridotto la spesa pubblica come percentuale del prodotto nazionale. Abbiamo riformato la legge sui sindacati e i regolamenti inutili. Abbiamo creato un circolo virtuoso: tirando indietro il governo abbiamo lasciato spazio al settore privato e così il settore privato ha generato più crescita, il che a sua volta ha permesso solide finanze e tasse basse”. Tutto ciò descrive esattamente un quadro opposto a quello dell’Italia governata dal centro-sinistra, che per non affrontare i nodi cruciali della spesa pubblica (pensioni, sanità, scuola), della rifoma dello Stato (servizi, privatizzazioni, non profit) e del mercato del lavoro (potere sindacale, flessibilità) ha buttato tutto il peso del risanamento del debito pubblico sulle spalle della classe media, senza per altro far seguire a quest’opera di vera e propria vampirizzazione dei ceti produttivi, riforme strutturali che avviassero quel circolo virtuoso che, altrove, come appunto in Gran Bretagna, ha rilanciato una dinamica di crescita e di benessere diffuso a tutti i livelli della società.
E su quale semplice ed elementare principio la Thatcher ha fondato la sua rivoluzione che, in buona sostanza, è stata fatta propria dallo stesso new labour di Blair? Sul principio che “il governo può fare poco di buono e molto che invece fa male e quindi il campo di azione del governo deve essere tenuto al minimo”. Le dotte analisi dei nostri sociologi e imbonitori ex-post-neo comunisti che riempiono ancora libri di testo, conferenze e colonne dei giornali inorridiscono di fronte alla pragmatica aderenza alla realtà del dettame thatcheriano secondo cui “è il possesso di proprietà che ha un effetto psicologico misterioso ma non per questo meno reale: il prendersi cura del proprio offre un addestramento nel divenire cittadini responsabili. Il possedere una proprietà dà all’uomo indipendenza contro un governo troppo invadente. Per la maggior parte di noi i nodi della proprietà ci costringono entro doveri che altrimenti potremmo scansare: per continuare con la metafora ci impediscono di cadere nell’emarginazione. Incoraggiare la gente ad acquistare proprietà e risparmiare è stato molto di più di un programma economico”. È stata, infatti, “la realizzazione di un programma che ha posto termine ad una società ‘basata su una sola generazione’, mettendoci al suo posto una democrazia fondata sul possesso di capitale”. In tutt’altra direzione è avanzata l’italia degli anni ’90, cioè della Repubblica giudiziaria prima e dell’Ulivo poi: ha difeso una sola generazione e ha messo in mora la democrazia fondata sul lavoro. Per questo, ben venga Berlusconi.