Tentar (un giudizio) non nuoce

Anche la politica può assomigliare a una cattedrale

Di Raffaele Cattaneo
11 Novembre 2023
Una serata in compagnia di amici più giovani mi ha costretto a ripensare al mio trentennale impegno nelle istituzioni. Perché impegnarsi nella "cosa pubblica"?
Raffaele Cattaneo
Raffaele Cattaneo, sottosegretario con delega alle Relazioni internazionali ed europee di Regione Lombardia (foto Ansa)

Nelle scorse settimane mi sono trovato con un gruppo di giovani nuovi amici a condividere una cena e a parlare di politica. Quasi tutti i miei ospiti, che avevano più o meno l’età dei miei figli, hanno iniziato a farmi domande sulla mia trentennale attività politica e sulla mia esperienza dentro le Istituzioni. Volevano capire innanzitutto cosa mi avesse spinto a fare quelle scelte e a percorrere a lungo questa forma di impegno, interessante anche per loro ma percepita con distacco e difficoltà. È stata una serata straordinaria, dove l’intervista collettiva mi ha permesso di fare memoria delle ragioni della mia dedizione alla cosa pubblica e alla “nobile arte” della politica, troppo spesso bistrattata. Ebbene cosa volevano sapere i miei commensali: “Perché a distanza di anni, ti impegni ancora come fosse il primo giorno? È un’ostinazione quella che ti porti appresso? Un’abitudine? Una questione di soldi? L’incapacità di fare altro? Ciò che ti muoveva a vent’anni può essere quello che ti fa alzare ogni mattina ancora oggi, passati i sessanta? Cosa ti tiene legato a questo mondo, così squalificato?”.

Era evidente dalle loro parole che per i giovani la politica ha perso non solo il suo carattere di autorevolezza, ma ancor più il carico di speranza che aveva nei decenni passati.

Una frattura

Del resto, sono spariti i luoghi di aggregazione e di formazione, si sono indeboliti fino quasi a sparire i corpi intermedi, siamo passati dal “riflusso” degli anni ’80 e ‘90, al disinteresse collettivo, fino al populismo e al sovranismo amplificati dai “leoni da tastiera” dei social. Il potere reale, dopo la globalizzazione, è sempre più demandato a livelli altri dalla rappresentanza democratica: le grandi compagnie che dominano l’innovazione e la comunicazione, la finanza internazionale. Le istituzioni politiche si sono allontanate dalla gente e dai territori: le scelte globali e le leggi derivano sempre più dagli organismi sovranazionali, come l’Unione Europea o le Nazioni Unite e anche questi non hanno dato grande prova di sé. Le ideologie sono scomparse, così come sono sbiadite le spinte più genuine che venivano dalla società in chiave sussidiaria. Tutto questo ha creato una frattura e una distanza fra i giovani e la politica.

Ma c’è dell’altro. Mi hanno chiesto anche come funzionava allora il rapporto con i compagni di viaggio importanti che ho avuto e con cui condividevamo il pensiero, la visione e l’azione politica. Per loro l’idea che la politica possa essere un’opera comune è tanto affascinante quanto sconosciuta. Poi volevano sapere degli scandali: anche se oggi tante accuse sono rientrate, le ferite di quegli anni sono rimaste nella memoria e l’uso, tante volte strumentale, della magistratura e delle inchieste ha divelto un contesto di fiducia reciproca nella politica e in chi la incarnava e ha smantellato una comunità dentro la quale i più giovani potevano appassionarsi e crescere.

Insomma, loro volevano non un discorso, ma il libro della mia vita.

Sistemi perfetti

Mi sono domandato, ma in realtà me lo hanno implicitamente domandato loro, se io sia fossi come diceva Majakovskij: “solitario come l’ultimo occhio, di un uomo in cammino verso la terra dei ciechi?”. Cioè se io vedessi una realtà e raccontassi una esperienza per loro quasi impossibile da vedere e concepire. E al tempo stesso mi sono reso conto di quanto sia importante raccontare quello che ho avuto l’opportunità di vivere e le ragioni che lo hanno sostenuto.

Così ho risposto riprendendo ciò che già avevo scritto nel 2009 in un volume dal titolo La forza del cambiamento, cercando di riportare le ragioni di fondo del mio impegno che ancora potevano dirsi valide e attuali.

La politica per me è sempre stata un modo per contribuire al bene comune, cioè di ogni singola persona. Le distorsioni in politica ci sono sempre state, ma non ne fanno venir meno l’indispensabile funzione di sintesi e di indirizzo. Senza politica siamo destinati al potere più subdolo della tecnocrazia o della finanza. Il potere, del resto, funziona nella stessa maniera da migliaia di anni. A muovere gli ingranaggi però sono sempre gli uomini. E la storia è piena di uomini che ne hanno cambiato il corso per la speranza di cui sono stati portatori e per il coraggio creativo con cui hanno saputo trovare strade nuove. I grandi innovatori della storia sono sempre stati coloro che, pur non ignorando le regole del potere, hanno saputo interpretarle e quando serviva usarle con lungimiranza, guardando oltre. Il cambiamento reale non arriva in un tweet, non passa attraverso il cuore in fiamme delle istanze ideologiche e rivoluzionarie ma è figlio del realismo, della quotidiana ricerca di miriadi di soluzioni imperfette e dell’umana fatica della comprensione e dell’elaborazione. Solo in questo senso è possibile una politica differente. Solamente quando le idee corrono sulle gambe, nel cuore e nella testa di uomini consapevoli degli ideali e della visione che li animano e delle responsabilità imposte dal loro ruolo. La differenza non la fanno “sistemi talmente perfetti in cui non ci sia più bisogno di essere buoni”, come diceva T.S. Eliot, ma lo spessore degli uomini, la grandezza del loro cuore, che inevitabilmente ha un’origine Altra.

Allargare la ragione

La politica, del resto, è semplicemente una fatica quotidiana rivolta a un tentativo positivo. Uno sforzo umano quindi di per sé imperfetto, come lo sono, del resto, tutti i tentativi in ogni campo, dall’impresa alla ricerca fino della vita affettiva. Ciò di cui la politica ha bisogno, quello di cui tutti noi abbiamo bisogno, è un anelito positivo, volto a costruire anziché a distruggere. Costruire è verbo faticoso, che non implica mai un successo garantito e risultati certi. Alla fine, la vera morale, in politica, è il compromesso sul possibile. Oggi ho i capelli grigi, ma nonostante questo, credo ancora in quell’idea, figlia della esperienza cristiana e della mia esperienza umana, desiderosa di mostrare la pertinenza della fede con la vita, anche in politica.

Nell’ultima missione fatta in Vietnam per conto della Regione Lombardia, assieme al Presidente Attilio Fontana, ho incontrato un interprete vietnamita che aveva studiato a Padova, così il nostro disquisire, facilitato dalla lingua, è andato oltre l’aspetto puramente professionale. Quest’uomo mi raccontava che nel suo Paese la religione non è vietata, ma deve rimanere di esclusivo ambito personale. Ognuno può credere quello che vuole, e professare il suo credo liberamene nella propria dimora. Altra cosa però è “pretendere” di rendere pubblica la propria convinzione religiosa e operare in quell’ottica. Anche un prete può celebrare la Messa, ma per fare l’omelia deve chiedere il permesso alle autorità competenti. Ecco, è stato un esempio illuminante: una fede che non arrivi ad avere una incidenza pubblica non disturba il potere. Ma io credo che soprattutto in un mondo così disarticolato come quello di oggi, sia ancor più necessario che “l’intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà” e la complessità debba passare dalla cruna “fede-ragione” come ebbe a dire Benedetto XVI nella famosa Lectio magistralis di Ratisbona: la fede non restringe lo spazio della ragione, ma al contrario lo allarga.

Ecco perché sono ancora qui, per le stesse ragioni che hanno ispirato tutte le mie battaglie giovanili. Ho scoperto negli anni che bisogna conoscere, capire, guardare dentro la realtà e accettare anche l’errore per comprendere quale via imboccare, Non è stato facile, ma è stato vero e quindi appassionante. Come era vera e reale quella voglia di vivere che lo zio di mia madre, condannato su una carrozzina, mi trasmetteva ogni giorno. Le sue cattedrali di fiammiferi, il suo credo incondizionato, a dispetto di una vita mutilata. Il mio “fare politica” non si è mai astratto da tutto ciò. Ecco perché sono ancora dentro le Istituzioni, per continuare un tentativo: quello di verificare e mostrare come l’esperienza cristiana abbia qualcosa di originale da dire anche sulla politica, su un modo più attento e appassionato di amministrare la cosa pubblica e persino di concepire in chiave sussidiaria il ruolo e il funzionamento delle istituzioni. Perché anche la politica può assomigliare a una cattedrale: una costruzione collettiva, che ha bisogno della visione di un architetto, delle mani di tanti muratori e capomastri, ma soprattutto della passione e della adesione unitaria di un popolo.

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