Pubblichiamo in anteprima la rubrica di Oscar Giannino “Non sono d’accordo” del numero 26 di Tempi, in edicola dal 30 giugno.
Lo dico con tutto il rispetto per i sinceri oppositori della Tav Torino-Lione, poiché tra loro ci sono anche accademici come il professor Marco Ponti, ai quali va tutta la mia stima perché da anni dibattono seriamente, stanziamenti possibili alla mano, sui costi-benefici in ordine alle priorità infrastrutturali più gravi del nostro paese. Ma voglio dirlo lo stesso: chi abbiamo visto per l’ennesima volta con caschi, mazze e altro opporsi alle forze dell’ordine in località La Maddalena a Chiomonte (con tutte le eccezioni del caso, perché anche lì non sarà mancato chi era in buona fede) nulla ha a che vedere con la serietà e la pacatezza che andrebbero riservate alla decisione di aprire un primo cantiere per un’opera di questa importanza.
La Tav Torino-Lione ha finito per rappresentare da anni l’ennesima trincea del no pregiudiziale a opere e infrastrutture, investimenti transnazionali e scommesse di ampio respiro su direttrici di sviluppo che impegnino grandi capitali e scelte hard invece che soft, in termini tecnologici, architettonici e di impatto ambientale governabile. Che vi siano dei sacerdoti, aggiuntisi negli anni alla sinistra antagonista e ai centri sociali, e che numerose amministrazioni locali della Val di Susa e di altre valli interessate abbiano scelto la via dell’opposizione pregiudiziale e del sostegno alla resistenza alle forze dell’ordine, non mi fa cambiare idea. Bisogna uscire da questo blocco avanzato non più per modificare il tracciato e l’impatto della Tav, perché nel frattempo siamo alla terza versione del progetto e quello attuale risparmia ben 4 miliardi di euro sul precedente, ci consente di tornare a un bilanciamento 50 e 50 dei costi coi francesi, riduce a meno di un terzo gli 81 chilometri di scavo originariamente previsti.
Tutto questo rispetto al secondo progetto, definito tra 2005 e 2008 in un lunghissimo confronto con tutte le realtà locali e associative realizzato dall’Osservatorio tecnico guidato dal pazientissimo commissario di governo Mario Virano. Quel progetto indusse comunque a proteste violente riprese nel 2010, e oggi siamo alla ripresa in grande stile dell’antagonismo di fronte alla terza variante.
Si mira a perdere la prima quota di finanziamento europea, di 671 milioni, in modo da far cadere per sempre la possibilità che il Corridoio 5 colleghi Lione e Torino sull’asse ovest-est. Mentre un’alternativa possibile, la Nizza-Genova-Milano, è a sua volta bloccata dallo stallo sul Terzo valico dei Giovi, senza il quale le prospettive del porto di Genova sono una lunga morte per anossia. Significa rinunciare al collegamento diretto dello scalo merci di Torino Orbassano al corridoio europeo e rinunciare a inserire la gronda merci di Torino Nord nell’Alta velocità con Milano attraverso l’innesto di Settimo Torinese. Per il solo indotto automotive torinese, equivale a escludersi da una grande possibilità di abbattimento dei costi per gli anni a venire, proprio mentre ci si interroga sulle scelte di Fiat e sui no della Cgil, tanto per cambiare.
Ma chi ha la supremazia sulle infrastrutture?
Il problema non è solo riaffermare il pieno diritto delle forze dell’ordine a consegnare le aree alle società che devono avviare i cantieri: sarebbe il minimo, per un paese civile. I no-Tav ci obbligano a guardarci negli occhi. Da decenni realizzare grandi opere in Italia è diventato proibitivo. E il Titolo V della Costituzione ci ha aggiunto del suo: oltre a una disciplina insensata delle conferenze di servizio (che andrebbero riformate seguendo proprio l’esempio francese, con tempi stretti e certi di partecipazione dei soggetti locali, limiti rigorosi agli oneri per opere compensative e alle riserve tecniche aggiuntive, in modo da impedire che chi salta un passaggio cambi idea in seguito riservandosi l’impugnativa alla giustizia amministrativa, e in modo altresì che il capitale privato possa contare su rendimenti certi degli investimenti e calendari rigorosi di realizzazione delle opere), la Costituzione vigente fa codecidere alle autonomie, in assenza di quella “clausola di supremazia” per le opere di interesse nazionale che esiste invece in ogni ordinamento, anche in quelli più federalisti, dagli Stati Uniti alla Germania.
Capita così che i no-Tav si sentano investiti di una missione in nome di uno sviluppo “altro e diverso”, e che i giudici amministrativi diano loro una mano come a Porto Tolle, e che la cacofonia di Regioni sprovviste di competenze tecniche e tempi certi metta l’intero Mezzogiorno in condizioni di aver impegnato al febbraio scorso solo il 9 per cento delle decine di miliardi di euro riservati per opere infrastrutturali e sviluppo del Sud entro il 2013. Tutto ciò merita un solo sostantivo: or-ro-re. Un paese incapace di avere norme in linea coi tempi rapidi dei concorrenti, è un paese perduto. È un paese che perde anche la testa e il cuore dei suoi cittadini, che in sempre più casi pensano che non fare nulla sia meglio di qualunque cosa, perché chissà quali innominabili interessi si celano dietro… Nella fiducia pubblica azzerata, ragliano gli asini e prosperano i Masaniello. Ma crescita e sviluppo ordinato vanno a farsi benedire. Magari da un prete no-Tav.