«Finché regge “l’equilibrio instabile”, la guerra in Ucraina continuerà»

Di Emanuele Boffi
21 Maggio 2025
Secondo Roberto Arditti, né Mosca né Kiev sono in grado di vincere, ma entrambe possono continuare a combattere. Il conflitto è in stallo ed è stato "metabolizzato" dal mondo. Intervista
Donetsk, Ucraina, 9 marzo 2025 (foto Ansa)
Donetsk, Ucraina, 9 marzo 2025 (Foto Ansa)

«Non credo alla pace vicina tra Russia e Ucraina: perché nessuno ha ancora vinto, e finché questo equilibrio instabile regge, il conflitto continuerà». Roberto Arditti ha scritto così, il giorno prima della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, mostrando un certo “scettico realismo” sull’esito del colloquio tra il presidente statunitense e russo.

In questi giorni, è in uscita il suo nuovo libro (Hard Power. Perché la guerra cambia la storia, Giubilei Regnani) che mette in guardia dall’illusione di pensare che possa essere sufficiente il soft power (la diplomazia, la politica) a risolvere le crisi. Con una serie di esempi, Arditti mostra che sono sempre «il peso economico e quello militare a fare la differenza».

Dopo la telefonata, abbiamo letto le dichiarazioni di Putin e Trump. Più flemmatiche quelle russe, più entusiaste quelle americane. Perché?

Non bisogna mai dimenticare che giocano in due campionati diversi. Trump si confronta con un sistema dei media che fa parte del mondo libero e che per lui ha grande importanza. Putin ha il dovere di fare il Putin, cioè di apparire sempre molto sicuro di sé, mai in ansia, tranquillo e determinato a portare avanti una guerra senza data di scadenza. Usano toni diversi perché hanno pubblici e obiettivi diversi. Trump, al contrario di Putin, ha fretta di rivendicare un qualche risultato e di apparire come leader dialogante.

Dialogante sì, ma fino a quando? Poche ore prima del colloquio telefonico il vicepresidente statunitense J.D. Vance ha rilasciato una serie di dichiarazioni in cui paventava un disimpegno americano. Ha detto Vance: «È la guerra di Joe Biden, è la guerra di Vladimir Putin; non è la nostra guerra». E ancora: «Cercheremo di porvi fine, ma se non ci riusciremo, alla fine diremo: “Sai che c’è? Valeva la pena provarci, ma non andiamo oltre”».

L’amministrazione americana ha fretta di mostrare un qualche passo in avanti. Lo hanno annunciato urbi et orbi, difficile che possano tirarsi indietro. Non penso che s’illudano di ottenere la pace, ma almeno cercano di ottenere qualcosa che possa essere rivendicato come una svolta alla situazione. Il difficile è dire cosa possa essere questo “qualcosa”, magari una “mezza pace” che, potranno dire, è meglio della guerra attuale. Il fatto è che quando c’è una guerra per girare pagina veramente occorre che uno dei due contendenti vinca. Ma, al momento, né russi né ucraini sono in grado di farlo.

I presidenti francese Emmanuel Macron, britannico Keir Starmer e tedesco Friedrich Merz, 9 maggio 2025 (Foto Ansa)

Ma se nessuno è in grado di vincere, come finirà?

Appunto, non finirà. Come ho già scritto, ci siamo assestati su un “equilibrio instabile”. La Russia non ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, ma ha aggiustato i suoi meccanismi industriali, può contare sul sostegno cinese e, pur tra mille difficoltà, continua ad esportare gas e petrolio. Può andare avanti diversi anni a sostenere questo conflitto. Sull’altro lato, l’Ucraina è vero che ha perso il 20 per cento dei suoi territori, ma non è più nella stessa situazione dell’aprile 2022. Ha un’industria militare nazionale di tutto rispetto e fabbrica armi. Come ho scritto, «Kiev non è più solo il fronte della guerra: è sempre più la sua officina». Ha un problema con l’arruolamento e questo non le permette di riconquistare i territori perduti, ma i soldati che ha a disposizione le consentono di difendersi.

Il risultato è che la guerra è in stallo.

Sì, si regge su quell’equilibrio instabile di cui parlavo. Ed è così ormai da due anni. Con un fatto che non ci dobbiamo nascondere: il mondo sta capendo che il conflitto in Ucraina ha sempre più i connotati di una guerra locale. È come se lo avessimo “metabolizzato”. Da un lato, Germania, Francia e Regno Unito, dall’altro Stati Uniti e poi poi poi l’Italia, giocano due parti in commedia diverse. Senza che abbiano studiato a tavolino questa strategia, di fatto i primi recitano la parte dei “poliziotti cattivi”, e i secondi quella dei “poliziotti buoni”. È questo un altro fattore dell’equilibrio instabile.

A proposito di questi continui summit europei sulla vicenda ucraina, durante una trasmissione televisiva l’ho sentita dare un consiglio non richiesto a Giorgia Meloni: «Vai al minor numero possibile di riunioni».

È una cosa ridicola. Ogni settimana abbiamo notizia di un summit: ce ne è uno il lunedì, uno il mercoledì, uno il venerdì e, a volte, si aggiunge quello del fine settimana. Volendo scherzare verrebbe da dire: ma questi non hanno altro da fare? Capisco che la politica estera abbia più fascino e sia meno impegnativa di quella domestica, ma fa un po’ ridere questa ansia europea del punto stampa, della photo-opportunity, della dichiarazione per confermare l’amicizia tra Stati. Qualcuno ha notizia che Arabia Saudita e Bahrein si trovino due volte a settimana per confermarsi la reciproca stima?

È, però, ciò che la nostra opposizione rimprovera al presidente Meloni, accusata di essere «isolata» nel contesto europeo perché non partecipa a queste riunioni.

Ognuno fa il suo mestiere, compresa l’opposizione. Anche Meloni fa il suo, ben sapendo che l’Italia ha perso la Seconda guerra mondiale, non ha armi nucleari, non ha l’industria tedesca… e così via. Sa anche che il suo elettorato non ha in simpatia il presidente francese Emmanuel Macron né quello inglese Keir Starmer, quindi cerca un rapporto con l’amministrazione Trump senza rompere fino in fondo con gli alleati europei. Fa, insomma, quel che è naturale che faccia. E poi finché Elly Schlein, Giuseppe Conte e Matteo Renzi andranno avanti a criticarla può dormire sonni tranquilli. Se dovessero cominciare a darle ragione, allora dovrà preoccuparsi.

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