Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Perché è giusto che le famiglie italiane scendano in piazza per esporre le proprie ragioni? Perché è da tempo che quelle ragioni sono estromesse dalle sedi istituzionali, sia quelle rappresentative (parlamento ed enti territoriali) sia le altre, tribunali in testa. E perché le esigenze delle famiglie, messe alla porta, sono state sostituite da quelle di realtà che godono di diritti individuali, ma non sono famiglie. È urgente che le famiglie si facciano portavoce di se stesse.
Mai come negli ultimi due anni l’aggressione legislativa, giudiziaria e di azione di governo, nazionale e locale, verso le famiglie è stata così intensa e negativamente efficace. Nel giro di pochi mesi l’Italia si trova su un piatto della bilancia l’affievolimento del vincolo matrimoniale (col divorzio breve e col divorzio facile e privatizzato) e sull’altro piatto il rafforzamento delle unioni fra persone dello stesso sesso, per le quali il testo all’esame del Senato, il cosiddetto ddl Cirinnà, prevede un rito formale di avvio, alla presenza di due testimoni, una sostanziale apertura all’adozione e il richiamo esplicito del medesimo regime del matrimonio: si legge “unioni civili”, ma la sostanza è “matrimonio gay”. Contestualmente la Consulta ha completato la considerazione del figlio come un oggetto: è “costituzionale” rifiutarlo in nome del diritto all’autodeterminazione se viene quando non lo si vuole; è “costituzionale”, e va realizzato a ogni costo, perfino col patrimonio genetico di altri, quando non viene e lo si vuole. Nel secondo caso lo si può scegliere “à la carte”, visto che è “costituzionale” la selezione genetica dell’embrione.
Tutto questo accade mentre la vita di ogni giorno delle famiglie è sottoposta a un carico fiscale che ha superato la soglia della oppressione, e l’ordinamento si disinteressa del numero dei figli o della presenza di anziani in casa.
Ecco, le famiglie scendono in piazza per dire che tutto questo non va bene: non va bene per la loro concreta quotidianità e non va bene per il futuro della nostra comunità nazionale, che invecchia sempre di più, e per questo offre sempre minori prospettive di sviluppo effettivo a chi ne fa parte. La presenza in strada non esclude il valore delle singole testimonianze e degli approfondimenti culturali, anzi concorre positivamente con le une e con gli altri. È un segno di speranza e di non rassegnazione: come tale fu dieci anni fa la pressione culturale che portò alla legge sulla fecondazione artificiale e alla sua efficace difesa referendaria, sconfiggendo luoghi comuni, pregiudizi e manipolazioni mediatiche. O la vittoriosa resistenza dell’Italia di fronte alla imposizione della estromissione del Crocifisso dai luoghi pubblici.
L’Italia dopo l’Irlanda? Solo se la deriva libertaria e antiumana non incontra – come è accaduto a Dublino e dintorni – nessun tipo di reale resistenza. Ma non finiamo come a Dublino se da fuori i Palazzi in tanti diciamo che non si può fare a meno della famiglia; che la categoria famiglia non esiste più se è sostituita da plurime categorie di famiglie; che è senza logica mettere sullo stesso piano realtà diverse, privilegiando convivenze nelle quali la rivendicazione dei diritti va di pari passo con l’abbandono dei doveri; che, per riprendere un punto su cui papa Francesco torna di frequente, il «degrado culturale» consiste nel preferire a un figlio il «più facile» e «maggiormente programmabile (…) rapporto affettivo con gli animali». È tornato il momento di dirlo a tutti. In strada. Forte e chiaro.