Ci sono tante cose a cui ci si abitua, nel bene e nel male, e che fa uno strano effetto non vedere più: le espressioni imbarazzate dei politici mentre Maurizio Crozza introduce Ballarò, le interviste alle escort dell’Ultima Parola, la telefonata in diretta all’Infedele del premier e il volto furioso di Gad Lerner, le ricostruzioni illustrate delle intercettazioni sugli ultimi sviluppi del caso Ruby di Annozero. Si potrebbe continuare all’infinito: un’era televisiva si è conclusa, e ora tocca fare i conti con un nuovo assetto politico che inevitabilmente incide anche sui toni e le forme dei talk show. La pacificazione tra i partiti per il bene del Paese paga a livello di ascolti? E cosa cambierà?
«Il problema è che ci siamo assuefatti alla rissa» osserva Giorgio Simonelli, docente di Giornalismo televisivo all’Università Cattolica di Milano. «Si sentirà la mancanza dello schieramento netto, del paradosso, di alcune esternazioni che facevano sorridere. La televisione ha applicato un bipolarismo muscolare che faceva comodo e l’ha cavalcato. Adesso nessuno sa che pesci pigliare. Io però accolgo questa novità con una certa soddisfazione: finalmente si torna alla normalità. Sono vent’anni che i talk show proliferano sul nostro palinsesto televisivo, spesso inutilmente: sentiamo davvero il bisogno di tutti questi dibattiti serali? In Francia e in Inghilterra c’è un talk show a settimana. Ben pensato, e ben prodotto».
Qualche mese di autonomia, sicuramente possiamo aspettarcelo: toccherà parlare di contenuti, scegliere un approccio divulgativo per dettagliare al pubblico i provvedimenti del nuovo governo. E poi? «Le posizioni diventeranno molto sfumate, fino ad essere ambigue. Ora siamo nella fase delle strizzate d’occhio, delle frasi implicite, che quasi non sappiamo più codificare. Credo che gradualmente si arriverà a un azzeramento della formula, per lo meno per come la intendiamo ora: un “Processo del Lunedì” di biscardiana memoria replicato all’infinito». Una formula decisamente inflazionata, e che secondo Simonelli ha come grosso limite la prevedibilità: «Che si discuta di globalizzazione, di fecondazione assistita o di calcio, si manifestano sempre due posizioni nette: favorevoli e contrari. A prevalere è la difesa di una posizione, spesso riconducibile allo schieramento politico che l’ospite, o il conduttore, rappresenta». Il secondo “peccato originale” sta nella presunzione di onnipotenza, per cui il talk show è diventato il luogo in cui si svolgono tutte le funzioni sociali: «Dal processo, alla terapia di coppia, passando per il dibattito parlamentare».
Insomma, potrebbe essere un’occasione per “normalizzare” i dibattiti televisivi, da anni saturi di una contrapposizione di stampo calcistico che ha finito per prevalere sui contenuti. Ma non è detto che la sobrietà venga apprezzata dal pubblico. Il Più grande spettacolo dopo il weekend di Fiorello è un varietà classico che più classico non si può, e ha avuto un successo enorme. Può essere un primo segnale di stanca rispetto a un contenuto che si sta svuotando? «Perché no? Il servizio pubblico prevede anche che siano messi a disposizione del cittadino degli spazi di intrattenimento intelligente, e ben fatto. È in questo che bisogna investire. Ed è decisamente più sano divertirsi davanti a Fiorello, piuttosto che a un parlamentare incravattato che dà in escandescenze in un salotto televisivo».