Raccontare l’Italia attraverso la passione e il rispetto degli italiani per il lavoro. Con le voci, le facce, le storie di gente normale: gente che considera il lavoro una componente importante della propria esistenza, che sente la necessità e l’urgenza di farlo bene, che prova un’intima soddisfazione quando ci riesce, che anche per questa via dà senso e significato alle cose che fa, che contribuisce in questo modo alla visione e al futuro del proprio paese.
È una raccolta di esperienze, quella proposta da Vincenzo Moretti, sociologo, in collaborazione con la fondazione Ahref e la fondazione Giuseppe Di Vittorio. È intitolata “Le vie del lavoro“, e raccoglie materiale fotografico e video.
C’è Vincenzo, che dopo qualche anno in officina apre una libreria tutta sua, e spiega che «Il lavoro è vita, è quello che ti fa andare avanti». C’è uno degli ultimi ebanisti di Salerno, che racconta di un’arte tramandata di padre in figlio per sette generazioni.
C’è Carmine, «figlio tremendo: mia madre mi faceva stare buono insegnandomi il telaio», che da dieci anni è restauratore e ricamatore in oro di paramenti e apparti sacri, e descrive una stanchezza che si trasforma in pazienza, accuratezza, amore per il bello. «Per me è un hobby, una passione, un ricordo vivo di mia madre. È tutta la mia vita». Ci sono i muratori di Napoli, gli scalpellini di San Giorgio, vicino a Salerno: c’è Antonio, musicista ed insegnante di chitarra. Gli piace così tanto quello che fa che ha deciso di costruire una chitarra da solo: passione, accuratezza, dedizione e quattro mesi di ricerca. C’è il laboratorio sociale di Castel Volturno, che offre lavoro a donne immigrate nigeriane. Realizzano borse e abiti con stoffe del Burkina Faso, e il primissimo piano sulle loro mani parla di integrazione e di dignità. C’è Jamal, 48 anni, algerino, una vita passata sulla strada, tra droghe e piccoli furti. «Oggi sono un uomo nuovo». Ha una bellissima bambina di quattro anni, e lavora nella stessa comunità per tossicodipendenti che l’ha tolto dalla strada: un raro caso di utente che diventa operatore.
«Ho cercato di usare un solo criterio: individuare chi, senza clamore, senza fare notizia, pensa che il lavoro non sia solo un modo per procurarsi i beni necessari per vivere, ma anche un valore. Un bisogno in sé, uno strumento importante per organizzare la propria vita in un sistema di relazioni riconosciute, per soddisfare le proprie aspettative di futuro» spiega Vincenzo Moretti. Quella affrescata è l’Italia «degli italiani normali, di quelli che pensano: lavoro, dunque valgo. Un Italia che merita rispetto e considerazione, perché con il loro sapere e il loro fare condizionano un pensare collettivo. E l’ago della bilancia si sposta dal riconoscimento sociale della ricchezza in quanto tale, al riconoscimento sociale della realizzazione, dal valore dei soldi al valore del saper fare».
Un’Italia che non solo esiste, ma che secondo Moretti rappresenta la chiave della rinascita in tempo di crisi. «Mio padre, quando avevo otto anni, mi ha spiegato a modo suo la differenza tra il tirare a campare e l’essere efficienti: il contesto era l’Enel, in cui lavorava, in conflitto con un suo collega scansafatiche. Mi disse che la fatica bisogna prenderla di faccia». E nonostante il precariato, i morti sul lavoro, l’irregolarità diffusa in materia fiscale-contributiva, il punto di fuga rimane questo: la ricerca della bellezza. Moretti lo chiama “l’approccio dell’artigiano”: quello che ti fa provare calore nel fare bene una cosa a prescindere, senza cercare alibi nei fattori esterni, nel contesto sociale, nell’ambiente. «È lo sguardo del laureato che si ritrova a fare lo spazzino. E dopo aver pulito la strada torna indietro, la ripercorre al contrario, fiero del suo faticare».