Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Che le tecnologie informatiche possano generare dipendenza e fare male alla salute lo dicono in tanti; che stiano cambiando l’essere umano in peggio e lo stiano disumanizzando lo denunciano genialmente alcuni intellettuali delle più diverse estrazioni. Per Fabrice Hadjadj le nuove tecnologie informatiche sono alla base della disincarnazione che mette a rischio l’umanità dell’uomo tanto quanto le biotecnologie che lo riducono a fattori materiali scomponibili e ricomponibili.
La comunicazione tramite schermo attenta alla famiglia come luogo di comunione e di generazione affettiva dell’umano, impedendole di riunirsi veramente attorno alla tavola: «Qual è il luogo dove si tesse il tessuto familiare? Dove le generazioni si incontrano, conversano, talvolta litigano e tuttavia, attraverso l’atto molto primitivo di mangiare insieme, continuano a condividere e a essere in comunione? Questo luogo è tradizionalmente la tavola. Oggi invece sempre di più ciascuno mangia davanti alla porta del frigorifero per tornare più rapidamente al proprio schermo individuale. Non si tratta nemmeno più di individualismo, ma di “dividualismo”, perché su quello schermo ciascuno apre più finestre e si divide, si frammenta, si disperde, perde il suo volto per diventare una moltitudine di “profili”, perde la sua filiazione per avere un “prefisso”. La tavola implica il raggrupparsi, entro una trasmissione genealogica e carnale. Il tablet implica la disgregazione, entro un divertimento tecnologico e disincarnato. Se la tavola scompare, è anche perché l’adolescente diventa capofamiglia: è lui che sa maneggiare meglio gli ultimi gadget elettronici, e né il nonno né il papà hanno niente da insegnargli».
Se applicate troppo entusiasticamente all’evangelizzazione, le tecnologie informatiche rischiano di corrompere il cuore stesso dell’Annuncio: «Il mezzo impone al messaggio il suo format. Se questo mezzo è il Mediatore (Cristo, come si legge nella lettera agli Ebrei, 8,6) in carne e ossa, il format si trasmuta in forma divina: il precetto diventa presenza, il corpus di regole corpo, la notifica volto, il messaggio mistero. Se il mezzo è informatico, il format non è più quello del Servitore sofferente ma del server: tutto si riduce a informazione automatizzata, e la presenza diventa download, il corpo bit e pixel, il volto “profilo”, il mistero “messaggio”… Si può diffondere il Vangelo attraverso Twitter, in brani di 140 caratteri, ma significa ridurlo a slogan. Peggio: è fare come se il Vangelo fosse una notificazione intorno a qualcosa, e non un incontro con qualcuno».
La cultura del “rating”
Bret Easton Ellis, l’autore del romanzo American Psycho, ha scritto uno strepitoso commento sul New York Times a proposito dell’“economia della reputazione” che la cultura del “like” e del “rating” dominante su internet e nei social media ha reso pervasiva. Non solo mettere dei “like” ed effettuare valutazioni di servizi permette alle imprese di fare il nostro ritratto di consumatori e di sfruttare i dati che in questo modo trasmettiamo. Ma la consapevolezza che oltre a valutare siamo valutati dagli altri – imprese e utenti – ci trasforma in soggetti impauriti e assoggettati al politicamente corretto, conformisti e intruppati per non essere messi ai margini e quindi privati delle opportunità sociali ed economiche.
Easton Ellis deplora «questo fiorire del culto del “like” e la temuta nozione di “relazionabilità” che ultimamente riduce ciascuno a un’arancia meccanica neutralizzata, asservita allo status quo imposto dalle corporation. Per essere accettati dobbiamo seguire un codice di moralità positivo in forza del quale deve piacerci tutto e la voce di tutti deve essere rispettata, e ogni persona che ha un’opinione negativa – un “dislike” – sarà esclusa dalla conversazione. Chiunque resista al pensiero di gruppo sarà spietatamente svergognato. (…) Anziché abbracciare la natura genuinamente contraddittoria degli esseri umani, con tutte le loro faziosità e imperfezioni, continuiamo a trasformarci in virtuosi robot».
Ma anche sottomettersi all’economia della reputazione ha conseguenze dolorose: «L’economia della reputazione è l’ennesimo esempio di addolcimento dei costumi, e tuttavia l’imposizione del pensiero di gruppo ha solo aumentato l’ansia e la paranoia, perché le persone che abbracciano l’economia della reputazione sono, come è ovvio, le più spaventate di tutte. Cosa succede se perdono quello che è diventato il loro bene più prezioso? L’adesione all’economia della reputazione è un minaccioso promemoria di quanto economicamente disperate siano le persone e del fatto che gli unici strumenti che hanno per salire sull’ascensore economico è la loro reputazione brillantemente in ascesa. Cosa che aumenta la loro incessante preoccupazione circa il loro bisogno di piacere, di ricevere dei “like”».
Ma il più tagliente di tutti i critici della rete di livello accademico è senz’altro Byung-Chul Han, filosofo coreano che insegna da molti anni presso l’Università delle Arti di Berlino ed è autore di una serie di libri sull’argomento che sono punti di riferimento ineludibili, soprattutto Nello sciame. Visioni del digitale e Psicopolitica (che attualmente esiste solo in tedesco e in spagnolo). Per lui è a causa delle nuove tecnologie che quelle che in passato erano le masse, poi la folla (Gustave Le Bon) e infine le moltitudini (A. Negri – M. Hardt), soggetti reali potenzialmente rivoluzionari, sono diventati lo “sciame digitale” dei nostri giorni: una folla senza anima incapace di un “noi” reale, puro insieme di dati sfruttabili dalle aziende, capace di emozioni intensissime ma senza durata.
Per capire il ruolo delle tecnologie informatiche nel sistema di dominazione odierno, bisogna anzitutto capire che il capitalismo neoliberista ha convinto l’uomo a sfruttare se stesso senza bisogno di costrizioni. Come dice Han a Federica Buongiorno in un’intervista apparsa su Doppiozero, «Oggi il corpo non è più un mezzo di produzione. Foucault parla in riferimento alla biopolitica della “popolazione”, ma oggi non abbiamo a che fare con la popolazione bensì con uno sciame digitale, con una massa digitale che va controllata e governata. L’analisi del potere foucaultiana vale soprattutto per una società che si fonda sulla repressione: ospizi, manicomi, prigioni, caserme e fabbriche sono istituti di questa società. Al loro posto è subentrata già da molto tempo una società di tutt’altro tipo, vale a dire una società composta di centri commerciali, palestre, centri yoga. Non è possibile descrivere l’odierna società della prestazione attraverso l’analisi del potere di Foucault. La produzione non si basa, attualmente, sulla repressione e sullo sfruttamento da parte di estranei, non reprime la libertà ma ne fa uso. Siamo noi stessi a sfruttarci: questo auto-sfruttamento è assai più efficace nella misura in cui si accompagna al sentimento della libertà».
Il consumo di emozioni
La libertà si riduce a un’apparenza asservita agli scopi del lavoro. Il tele-lavoro, la raggiungibilità universale garantita dagli smartphone e dai computer portatili garantiscono la continuità del lavoro, dal quale è sempre più difficile “staccare”. «Ho sostenuto – dice Han – che lo smartphone è una forma di campo di lavoro. Con lo smartphone noi ci portiamo dietro un campo di lavoro. Esso ci promette la libertà, ma di fatto è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza. Il tratto peculiare del contemporaneo campo di lavoro è che siamo al tempo stesso detenuti e sorveglianti. Non siamo servi, soggetti allo sfruttamento di un padrone. Piuttosto, siamo insieme servi e padroni».
L’altro modo in cui le nuove tecnologie realizzano l’alienazione umana è l’emozionalizzazione della comunicazione prodotta dal suo incremento di velocità: «L’accelerazione della comunicazione favorisce la sua emozionalizzazione, dal momento che la razionalità è più lenta dell’emotività. La razionalità è senza velocità. Per questo l’impulso acceleratore conduce alla dittatura dell’emozione». «Gli oggetti non possono essere consumati all’infinito, le emozioni invece sì. Le emozioni sono dispiegate al di là del valore d’uso. Quindi si apre un nuovo campo di consumo con caratteristiche infinite».
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