Quella dei terroristi che si rifanno all’Isis è guerra di religione o guerra non di religione? Mah, io direi guerra di religione asimmetrica. Il termine “guerra asimmetrica” venne introdotto subito dopo gli attentati dell’11 settembre e la dichiarazione di “guerra al terrorismo” da parte del presidente G.W. Bush. Da una parte c’era la potenza statuale degli Stati Uniti, le sue forze armate, la sua sovranità universalmente riconosciuta, e il grande territorio su cui essa era esercitata attraverso le leggi e l’azione del governo. Dall’altra c’era Al Qaeda, organizzazione terroristica transnazionale vagamente strutturata intenta a trasformare in arma qualunque prodotto tecnologico, non riconosciuta da nessuno stato del mondo e soprattutto priva di territorio di riferimento. Se la strutturazione sovrana permetteva agli Stati Uniti di organizzare e utilizzare il massimo di forza militare contro un avversario enormemente inferiore per numero e per mezzi, la questione del territorio invece giocava a favore di Al Qaeda: essa non doveva difendere dei confini e garantire la sicurezza dei suoi abitanti, mentre poteva colpire quelli del suo nemico quando si sentiva pronta. All’inverso, gli Usa dovevano dedicare forze importanti alla difesa della propria realtà territoriale e alla ricerca delle basi segrete di Al Qaeda sparse in giro per il mondo (spesso violando la sovranità di altri paesi). Quindici anni dopo, la guerra non è finita e si è di molto complicata, con l’apparizione di un’entità, lo Stato islamico, che unisce i caratteri di territorialità e di sovranità di uno stato classico come gli Stati Uniti con quelli di flessibilità e assenza di scrupoli di un‘organizzazione terroristica come Al Qaeda, che non ha sottoscritto alcun accordo di diritto internazionale.
Quella fra lo Stato islamico e tutti coloro che esso definisce infedeli o crociati è una guerra di religione sì, ma asimmetrica, non per il diverso modello di organizzazione delle forze in campo, ma perché solo l’aggressore, cioè l’Isis, la considera tale. In una guerra di religione classica, come sono state quelle europee del Cinquecento e del Seciento, le parti in campo combattono per la vittoria della vera religione, che sarebbe poi quella a cui ciascuno di loro aderisce. Oggi c’è un solo soggetto che vuole imporre la sua religione e l’ordine politico che da essa deriva a tutti gli altri, mentre gli altri non intendono imporre la loro religione ma solo praticarla. Che quella dell’Isis, al di là degli interessi politici ed economici di cui questa entità terroristica è veicolo, sia guerra di religione posso testimoniarlo di persona, avendo incontrato alcune delle sue vittime: i cristiani e gli yazidi dell’Iraq. Il contenuto del famoso editto del “califfo” al-Baghdadi, quello del luglio 2014 con cui intimava ai cristiani di Mosul di scegliere fra tre possibilità, e cioè quella di convertirsi all’islam, quella di pagare una tassa di sottomissione (la Jizya) oppure abbandonare la città, perché fuori dalle prime due opzioni “fra noi e voi ci sarà solo la spada”, io l’avevo già ascoltato sei anni prima dalla bocca dell’allora arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Lui mi aveva raccontato, quando ci eravamo incontrati in una cittadina della Piana di Ninive, che davanti alle case dei cristiani della sua città veniva lasciata una videocassetta, e quando la si proiettava si vedeva un uomo mascherato che intimava ai cristiani, accusati di essere complici dei crociati americani invasori del paese, di scegliere fra una delle tre possibilità dette, altrimenti non restava che la spada. A quel tempo l’Isis non esisteva, ma il progetto di cacciare i cristiani da Mosul sì, e poche settimane dopo l’intervista mons. Rahho fu rapito e non tornò vivo dal sequestro. Ancora più agghiacciante la narrazione che mi fece una donna yazida ridotta in schivitù dall’Isis e poi fuggita da Raqqa grazie alla complicità della moglie del jihadista che l’aveva acquistata al mercato. Mi disse che nel suo villaggio gli assedianti dello Stato islamico avevano dato tempo tre giorni all’intera comunità per convertirsi all’islam, altrimenti tutti sarebbero stati uccisi. Gli yazidi discussero per tre giorni se era il caso di accedere alla richiesta dei miliziani, e infine decisero all’unanimità di non rinunciare alla propria fede. Quando i jihadisti tornarono al villaggio, separarono gli uomini (dai 12 anni in su) dalle donne e dai bambini, e portarono via i primi su alcuni camion, che dopo poco più di un’ora tornarono vuoti per raccogliere chi era rimasto al villaggio e portarlo a Raqqa o a Mosul. Furono passati per le armi quasi 400 maschi.
Perché allora il Papa non fa tanti distinguo e dice semplicemente che quella in corso non è una guerra di religione? Perché è saggio. Perché si rende perfettamente conto che l’obiettivo dei terroristi, i quali a una visione religiosa palesemente si ispirano, è quello di scatenare una guerra di religione vera e propria, quella dove tutti o quasi tutti gli appartenenti a una fede religiosa combattono contro tutti o quasi tutti gli affiliati a un’altra religione, ciascuno convinto che è in gioco la sopravvivenza del proprio gruppo. I terroristi islamisti provocano i cristiani (per loro gli occidentali sono tutti cristiani) sperando che qualcuno fra loro reagisca con una violenza indiscriminata contro interessi musulmani (che so: un attacco contro fedeli radunati in una moschea), e che si inneschi così una spirale di aggressioni e rappresaglie che sfocerebbe in una guerra civile a sfondo religioso sul territorio europeo. Per evitare questo è giusto dire e ripetere che non accettiamo nessuna guerra di religione. L’esempio che mette sullo stesso piano l’assassinio di una suocera da parte del genero di religione cristiana con quello di un sacerdote cattolico trucidato dentro alla sua chiesa al grido di “Allahu Akhbar!” per dire che la violenza non può mai essere aggettivata con la religione di appartenenza di chi la commetta è infelice e mescola cose non componibili, ma il succo del pensiero di Francesco è corretto, ed è urgente ribadirlo: la violenza dell’Isis, di Al Qaeda e di tutti altri gruppi dell’islam politico estremista non è islamica, ma islamista, ma jihadista. Non è espressione fedele alla dottrina riconosciuta dell’islam, ma interpretazione, non infondata ma certamente parziale e non autorizzata, da parte di un certo gruppo. Come tanti altri, io lo scrivo dal 2001, dagli attacchi di Al Qaeda all’America: se definiamo islamico l’attacco a New York e Washington ieri, quelli a Parigi, Bruxelles e Nizza oggi, dobbiamo dichiarare guerra a un miliardo e mezzo di persone, calcolando solo i musulmani sunniti. Ma sarebbe un errore, e lo dimostra il fatto che Isis e Al Qaeda uccidono anche musulmani, e non solo gli sciiti, ma anche i sunniti che non vanno loro a genio o che oppongono resistenza alla loro espansione: i peshmerga curdi, i musulmani che assistevano ai fuochi artificiali del 14 luglio a Nizza, il professore di diritto islamico all’università di Mosul Mahmud Al Asali che protestava contro l’espulsione dei cristiani dalla città denunciandola come non islamica. Tutti costoro vengono giudicati apostati (la “scomunica” in questo caso si chiama “takfir”) e condannati a morte. Qualcuno ha paragonato la mancata sottolineatura dei contenuti religiosi della violenza dei terroristi da parte di Francesco ai “silenzi” di Pio XII durante la Seconda Guerra mondiale, notando che provocano le stesse controversie e sembrano nascere dalla stessa preoccupazione. Non so se le due cose siano paragonabili, e se il genere di controversia che suscitano sia il medesimo, ma su un punto c’è coincidenza: Pio XII allora e Francesco oggi hanno mostrato di agire da pastori universali, preoccupati dell’incolumità del gregge, preoccupati che la situazione non peggiori, che il numero delle vittime, dei violenti e soprattutto di chi si lascia manipolare dalla propaganda non aumenti.
Quanto sin qui detto non implica che quello che il Papa dice, magari nel corso di un’improvvisata conferenza stampa a bordo del volo papale, sia sempre tutto giusto e vada sempre difeso alla lettera e a prescindere, per la ragione che ogni notazione critica da parte di fedeli cattolici comprometterebbe la missione del Papa. Non è così. Nella Chiesa cattolica c’è libertà di parola, c’è la convinzione che siamo tutti fallibili, ancorché assistiti dallo Spirito Santo o in stato di Grazia per esserci confessati e comunicati, e infine c’è la correzione fraterna, dalla quale nessuno, in alto o in basso che sia, è esente. Che persino il Papa possa essere fraternamente corretto da chi papa non è non lo dico io, lo dice la Lettera ai Galati, là dove è riportato il faccia a faccia fra Paolo e Pietro sui riti mosaici. Scrive Paolo: «Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto». Pietro (Cefa) evitava i pasti coi pagani che si erano avvicinati al cristianesimo per non dispiacere agli ebrei cristianizzati, e Paolo lo corregge denunciando la sua ipocrisia. Questo avveniva nei primi tempi apostolici. Chi conosce la storia del cristianesimo e le cronache contemporanee sa che spesso le cose non sono filate e non filano così lisce, e i tentativi di correzione fraterna sono franati in accuse di tradimento e di eresia, in contese senza fine e senza nessun rispetto per l’interlocutore. Perché? Lo spiega indirettamente papa Francesco in una delle sue omelie a Santa Marta: «Non si può correggere una persona senza amore e senza carità», ha detto. «Non si può fare un intervento chirurgico senza anestesia: non si può, perché l’ammalato morirà di dolore. E la carità è come una anestesia che aiuta a ricevere la cura e accettare la correzione. Prenderlo da parte, con mitezza, con amore e parlargli». Da cosa si nota la mancanza di carità in una correzione? Francesco spiega che un indizio prezioso è se si prova «un certo piacere» nel vedere che qualcosa non va e nell’atto del correggere. Quello sarebbe il segno che la correzione è fatta senza carità. È vero, se uno si compiace di cogliere il fratello in errore è solo per due ragioni entrambe poco cristiane: o perché la cosa gli permette di sentirsi superiore al fratello, o perché ha dei conti da regolare con lui, e coglierlo in castagna per un errore rappresenta una vendetta apparentemente legittima. Correggere con carità è possibile solo se si ama l’altra persona, anche se l’altra persona ci è ostile o addirittura è un nemico. E si ama l’altra persona se si ama la Verità con la lettera maiuscola. Chi ama la Verità odia il peccato. Chi è preso dall’amor proprio più che dall’amore per la Verità odia il peccatore (reale o presunto) più di quanto provi odio per il peccato. E questo è sbagliato, come hanno spiegato monaci e santi, da Evagrio Pontico fino a san Giovanni XXIII. Un buon metodo, dunque, sarebbe quello di spersonalizzare le contese: concentriamoci sullo specifico della questione, non sulla persona che fa o dice una cosa che ci sembra sbagliata. Sarà almeno il segnale che non vogliamo ergerci al di sopra di Tizio o di Caio, ma chiarire un punto per procedere sul cammino della conversione. Quale sia l’atteggiamento da avere sempre nei confronti del fratello lo spiegava ieri la seconda lettura della liturgia ambrosiana: «Fratelli, la carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». (Rm 12,9) Stimarsi a vicenda: questa è la condizione per ogni confronto che abbia davvero il fine di sfociare in autentica correzione fraterna.