«Mentre i forni si riempivano di giorno e di notte / il venerato Santo Padre che abita a Roma / non ha lasciato il suo palazzo col crocifisso alzato / per essere testimone di un giorno di sterminio / Solo per stare lì, un giorno, / dove un agnello, ogni giorno di nuovo, è pronto per essere immolato, / l’anonimo figlio di un ebreo». Sopra al ritratto in bianco e nero di Papa Pio XII nel museo Yad Vashem, dedicato alla Shoah, le didascalie sono state modificate. Tali rettifiche degli storici documentano gli intensi anni di ricerche spesi a tentare di fare chiarezza su un difficile corso di eventi, basandosi sull’apertura di recenti raccolte d’archivio e incorniciando una situazione ben diversa da quella che si è sempre sostenuta. L’occhio cade istintivamente sul titolo, forma portatrice di un nuovo contenuto, che riporta la scritta “Il Vaticano e l’Olocausto” e non più semplicemente “Papa Pio XII e l’Olocausto”, sintomo inequivocabile di come per sviluppare una visione globale degli eventi occorra focalizzarsi sulla Chiesa prima che sul Pontefice. «La reazione di Pio XII all’uccisione degli ebrei durante l’Olocausto è una materia controversa tra gli studiosi», sottolinea parte della didascalia che riassume la posizione di indagine attuale a seguito delle ultime raccomandazioni dell’Istituto Internazionale per la ricerca sull’Olocausto dello Yad Vashem, per cui si torna a dare valore primario ai documenti, alle testimonianze e non alle interpretazioni. Tempi.it ha voluto intervistare sull’argomento Andrea Tornielli, giornalista e scrittore cattolico, vaticanista della Stampa e autore di un bel libro sull’argomento Pio XII, il Papa degli ebrei.
Tornielli, ritiene che l’arrangiamento delle didascalie rappresenti uno sviluppo importante nella vicenda attorno a papa Pio XII?
Ritengo molto positivo lo sviluppo delle ricerche cui si è arrivati. Finalmente si sta imparando a esercitare un giudizio critico e a prendere in mano una circostanza complessa, che merita profondità d’indagine. Le varie carte e le differenti posizioni sono state messe in campo con onestà, riformulando delle didascalie che tenessero conto non solo delle osservazioni negative dei critici, ma pure delle posizioni di difesa del Papa, dando spazio alla panoramica di molteplici scuole storiografiche.
Non solamente un compromesso di forma, frutto delle pressioni diplomatiche vaticane?
Sono certo che questo provvedimento non nasce da azioni diplomatiche, chi lo ha messo in atto ha affrontato la causa scientificamente. Il punto di svolta, a mio parere, è stato il workshop internazionale accademico “Pope Pius XII and the Holocaust – Current State of Research” svoltosi nel museo nel 2009, che ha visto il radunarsi di membri della Santa Sede cattolica e dello Yad Vashem. Quel che salva questa disposizione è il giudizio critico. Sono spinto a parlare così perché lo Yad Vashem è sempre stato molto attento a non prestarsi alle pressioni di Vaticano, come a quelle di qualsiasi altra forza diplomatica. Tanto è vero che nel 2009 rispose al suggerimento del Vaticano di addolcire le scritte per il Papa in visita per il Memoriale, con un netto rifiuto. Tengo a ribadire questo aspetto: chi ha agito, ha agito scientificamente, e ciò aumenta il valore dell’arrangiamento, indice di un work in progress sulla tematica.
Quale cambiamento di prospettiva vuole esplicitare il passaggio in testata da “Pio XII” a “Vaticano”?
Il titolo è senz’altro significativo, perché non focalizza più la questione sul singolo uomo, ma la amplia al vero nucleo decisionale, che è la Chiesa cattolica, restituendo, almeno nelle righe, il grado di complessità a cui quel periodo era votato. Ci furono più di 4.000 ebrei salvati nei conventi o monasteri a Roma e fra i promotori le testimonianze ci dicono esserci Pio XII. I documenti d’archivio dimostrano un intervento personale del pontefice per il salvataggio degli ebrei e smentiscono l’ipotesi della cosiddetta “leggenda nera”, povero risultato della propaganda sovietica e dell’opera teatrale Il vicario, scritta dall’autore tedesco Rolf Hochhuth. Naturalmente all’interno della Curia il clima non poteva definirsi omogeneo. Molti ecclesiastici si sono rifiutati di ospitare ebrei in casa propria, per paura delle conseguenze. Dobbiamo smettere di guardare alla storia come fosse monoliticamente bianca o nera, la realtà è più grigia di quel che appare. Questa spersonalizzazione della colpa aiuta a comprendere l’atmosfera in cui tergiversava l’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale.
È quindi errato ipotizzare una “connivenza” della Chiesa nei confronti del Nazismo?
“Connivenza” è una parola a mio parere forte e spropositata per descrivere il comportamento della Chiesa. Certo, in Germania ci sono stati vescovi che per salvarsi la pelle hanno aderito alle regole del regime, ma bisogna analizzare caso per caso, singolarmente. Prendiamo il Concordato del 1933, tanto abusato come strumento di accusa: non era assolutamente un concordato di approvazione delle leggi razziali, ma un concordato tra Stati, un trattato di difesa. Alcune parti di questo restano in vigore nella Germania attuale, segno che si è disposto un accordo cogli Stati e non col Nazismo.
Possiamo ragionevolmente affermare che si è passati dal terreno dell’ideologia e dei dogmatismi a quello della valutazione storica?
Di certo non si è passati dalla leggenda nera a quella rosa, ma se la prima dicitura era orientata verso un senso unico di condanna, la scritta odierna è più rispettosa e inserisce la possibilità del dibattito. Una posizione di accusa priva di prove e riferimenti storici non è sostenibile, alla lunga. Ho accolto con piacere la citazione del messaggio natalizio rivolto ai fedeli dal Papa nel 1942 in chiave anti persecutoria, nonché di denuncia pubblica, perché così è stato e le sfumature non vanno dimenticate.