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Susanna Tamaro: “Cosa penso dell’Italia”

Contro la gogna mediatica dei sentito dire e il moralismo bacchettone dei finti libertini. Ripubblichiamo un'intervista apparsa su Tempi 10/2010

Emanuele Boffi
04/11/2011 - 16:33
Cultura
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Fino a pochi anni fa Susanna Tamaro aveva l’abitudine di leggere i quotidiani con un giorno di ritardo. «Adesso, ne faccio passare quattro o cinque». Così, ciò che è mostrato come assioma roccioso e granitico il primo giorno, passata la rapida bufera di qualche notte, «si ridimensiona e si chiarisce. Viviamo in un tempo in cui le verità giornalistiche vanno fatte decantare».
Sul Corriere della Sera, Tamaro – così parca nei suoi interventi pubblici, su carta e in video – è intervenuta per descrivere tutto il suo «forte senso di disagio» per la «gogna mediatica» con cui, via intercettazioni, sono condannate le persone: «Se diamo credito alla stampa, viviamo in un paese di mandrilli assatanati che passano il loro tempo a organizzare festini da basso impero».
«È il perverso piacere – dice a Tempi – di vedere distrutta la vita altrui. È il gusto sottile della gogna, il macabro rito della ghigliottina». “Fa tutto schifo”, ci dicono. E poi voltano la testa sul guanciale.
«È solo un modo per rimanere tranquilli, perversamente tranquilli. È il modo moderno di confondere la giustizia col giustizialismo dei forni manzoniani. Strano: gli assassini colti a uccidere con l’accetta in mano sono “presunti” colpevoli; persone fino al momento prima ammirevoli, colte col telefonino all’orecchio, sono “certamente” dei furfanti».
La verità è diventata una mezza frase, una cattiveria da ballatoio, un sentito dire. «Una volta una giornalista mi accusò, durante una conferenza stampa, di essere fascista. Le chiesi da quali fatti lo desumesse. “Bè, lo sappiamo tutti. Da Anima Mundi”, rispose. “Lo ha letto?”, domandai. “No, ma l’ho sentito dire”».
Susanna Tamaro è la scrittrice italiana più letta al mondo, l’unica il cui successo sia paragonabile a quello di Oriana Fallaci. Oltre sedici milioni di copie vendute, traduzioni in tutte le lingue per una triestina che, come confessò una volta, non voleva diventare una scrittrice perché le sembrava «una cosa di cattivo gusto».
Temperamento mozartiano, vive da anni da anacoreta in un agriturismo che ha fatto ristrutturare nella campagna umbra. Qui coltiva la terra e i suoi amori: un frutteto, la vigna, l’orto, le arti marziali (di cui è maestra). Fa sovente la stessa identica passeggiata, riempiendosi le tasche di minerali che ama classificare e studiare fin da quando era bambina.
Vive immersa nella natura e nei suoi affetti, orgogliosa di condurre quella che lei definisce «una vita benedettina, ora et labora». Ama il cinema e non è che non conosca le regole e i sotterfugi del bel mondo; è solo che non fanno per lei, e si fa quasi un vezzo di rifiutarli con una certa ironia.

Come quella volta che le telefonò a casa un entusiasta Federico Fellini, per chiederle un appuntamento. «Voleva passarmi a prendere col suo macchinone per portarmi al ristorante. Io mi negavo, lui insisteva. Alla fine gli dissi: “Senta Fellini, mi dica dov’è il ristorante che la raggiungo in bicicletta”».

UN PURITANESIMO CHE CI È ESTRANEO
Tamaro afferma che questa prassi indecorosa dello squadernare la vita altrui su pagina è «una cosa indegna e assurda», oltre che incomprensibile. «A leggere le intercettazioni non si capisce nulla. Si usa un linguaggio gergale, si fa riferimento a contesti incomprensibili… Questo non è giornalismo, è il suo contrario». È un elenco di frasi tagliate ad arte per avvalorare una tesi precostituita. «Nella mia visione del mondo quel che è segreto deve rimanere segreto. Il giornalismo dovrebbe aiutarci a capire, non confonderci. Così, invece, si sparge nero di seppia per annebbiarci».
C’è una costante negli ultimi scandali: la tresca sotto le lenzuola. Tamaro l’ha conosciuto bene quel mondo e ci ha scherzato su: «Sebbene io nel mio pormi sia più simile a un’atleta di una squadra cecoslovacca di slittino che a una escort, ho sempre dovuto difendermi dagli assalti, dalle proposte oscene, dall’invito a condividere la camera in albergo durante le trasferte».
Però non scherza quando denuncia «questo moralismo bigotto che spesso proviene da quelle stesse persone che ci propongono il libertinaggio più assoluto. Ci vogliono imporre il matrimonio omosessuale, ma poi ci mandano alla gogna se finiamo a letto con la fanciulla consenziente. Amici libertini, ma queste cose succedevano già ai tempi dei faraoni!».
Per Tamaro l’uomo dalle mani e dalle mutande pulite, icona di «un puritanesimo che non ci appartiene», non potrà che finire impiccato al cappio della sua coerenza. «Da questa presunta richiesta di perfezione nasce il giustizialismo d’assalto, ma non la giustizia. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, dovrebbe essere il precetto laico e cristiano che regolamenta la convivenza civile». Altrimenti rimane solo la fila al patibolo e il terrore che «un giorno toccherà anche a me la parte della vittima. Perché la logica del capro espiatorio è vorace e ha sempre bisogno di nuovi e repentini sacrifici».
Come il filosofo inglese Roger Scruton, anche Tamaro pensa che «il sentimento più diffuso nel nostro tempo sia il risentimento». Non si può sopportare il successo altrui, è un monito troppo concreto alla noia del nostro vivere. È per questo che tutti chiedono sempre di essere risarciti: «Dobbiamo essere risarciti perché siamo stati gettati nel mondo senza che nessuno ci abbia chiesto il permesso, e questo crea in noi risentimento e livore».
È da qui che nasce la mistica della denuncia. Tamaro lo ha scritto a proposito del successo dei film Gomorra e Il divo, «premiati perché ripercorrono la strada dei film di denuncia. La denuncia dà sempre una patente di maggior coraggio. Ma cos’è la denuncia se non un modo di sentirsi migliori, avallando l’idea che, tramite l’indignazione, si possa contribuire a costruire un mondo più giusto? Ma siamo sicuri che sia proprio così?».
Le denunce, le firme, i manifesti. Sono la passione di molti intellettuali, quegli stessi che l’hanno rifiutata ed emarginata. «È una frattura che non si è ricomposta dopo che ho scritto Anima Mundi. Quello è un mondo in cui bisogna accettare la fluttuante negoziabilità dei propri princìpi». Firmano appelli «per lavarsi la coscienza. Si sentono a posto perché hanno detto cosa non va. Ma non basta, bisogna andare a fondo delle cose».

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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SLAP! UN COLPO SECCO ALLA TOLLERANZA
Non basta vivere cercando d’apparire persone perbene. Non basta essere concilianti, come quel tipo dell’aforisma di Churchill, che dava da mangiare al coccodrillo e si sentiva sollevato di essere l’ultimo a dover essere divorato. «Così non si va mai al fondo del problema. Perché siamo incoerenti? Perché facciamo il male? Perché sbagliamo? Una volta me lo hanno detto in maniera chiara: “Lei è odiata perché s’ostina a credere in queste cose arcaiche: il bene e il male”». «Sì, mi faccio ancora domande importanti: che cos’è l’uomo? Perché fa il male? Rousseau si sbagliava. Non è stato Abele, morto precocemente, a generare tutte le stirpi che popolano la terra, ma Caino».
Dove trovare una risposta? Nella Costituzione? La Tamaro se lo chiese sul Corriere: «Ci salverà forse la conoscenza della Costituzione dal degrado? Tutti questi corsi non sono molto diversi dalle guarnizioni di una torta di gesso esposta nella vetrina di una pasticceria». Forse nei nuovi precetti umanitari del rispetto, della tolleranza? «La parola tolleranza, vorrei prendere la paletta e schiacciarla, slap, un colpo secco mentre mi svolazza intorno con il suo ventre peloso e le sue ali iridescenti». Una volta le risposte a queste domande si trovavano in chiesa. Oggi in tribunale.
«L’abbiamo visto con i casi di Eluana Englaro, con la legge 40. Come Ponzio Pilato, non sapendo più cosa dire sulla vita, abbiamo demandato tutto ai giudici. Una follia. È un mondo più orrendo di quello immaginato da Orwell. Il nostro futuro è il gulag». Nell’immediato è «la perdita del timore. Una volta, si sarebbe detto il timor di Dio. Io non so cosa possa accadere in certi stati vegetativi, però ho timore ad agire con brutalità. Oggi, invece, basta la carta bollata del tribunale per spegnere una vita». E per far «sparire dall’orizzonte dell’avventura umana l’imprevisto, quest’ospite scomodo e inquietante, segno più tangibile che la vita è mistero».
È in nome di questo mistero che la Tamaro, cresciuta in una famiglia non credente, si è sempre «schierata per la vita. Anche negli anni Settanta – quella lunga interminabile giornata di pioggia che sono stati gli anni Settanta – quando frequentavo le femministe e tentavo invano di dissuaderle dall’aiutare ad abortire». Poi, verso i trent’anni, «ho cominciato a leggere, a chiedere, a cercare. Quel senso del mistero che mi accompagnava da bambina come un fiume carsico ha trovato la luce». Dice che in lei la consapevolezza del divino «non è nata né dalla paura né dal conformismo, ma dalla meraviglia. La fede non mi ha portato né chiusure né paure. Anzi, quelle che c’erano, le ha spazzate via».
Come la Fallaci si definiva un’atea cristiana, così la Tamaro si dipinge come «una cattolica un po’ anticlericale. Da anni conduco una personale battaglia contro la fede dei buoni sentimenti». Le è capitato più volte di chiedere ad amici cattolici quale fosse il fondamento della loro fede. «Mi rispondono: “La pace”, “essere buoni”, “non tradire mia moglie”. Mai nessuno che mi dica: “La resurrezione!”».

LE BANDIERE DELL’UMANITARISMO
Il cristianesimo sta vivendo un «importante passaggio: da fede imposta a scelta consapevole. La Chiesa ha la grande responsabilità di dare una risposta a tutte le persone che chiedono acqua viva e pura. Non può accontentarsi di offrire loro l’aranciata». L’aranciata è la buona creanza, le regole, i precetti. «Io odio i buoni sentimenti, io sono cattivissima», dice Tamaro, sapendo di sfidare così la vulgata che la vuole come la nuova Liala del Duemila. «Ho orrore dei perversi buonismi del nostro tempo. Perché mai dovremmo essere buoni, visto che ci conviene essere cattivi?».
Ha scritto che combattere il male con i buoni sentimenti «è come volere costruire un carro da guerra con degli stuzzicadenti. Viviamo in una società che, per anestetizzare la propria coscienza, ha bisogno di alzare sempre più alte le bandiere dell’umanitarismo, della tolleranza, del pacifismo. Sente i demoni salire dentro di sé, ma non sa come tenerli a bada, così usa i surrogati: l’osceno abito del buonismo».
Contro questa maschera dell’umanitariano sotto cui si nasconde «il ghigno della morte», esiste solo la «trasgressione del cristianesimo». È una cosa diversa da tutte le altre perché «propone un cammino, un percorso, una via per la redenzione». Come ha altre volte scritto, «senza l’idea di redenzione la storia diventa un’arena in cui i vincitori ammassano costantemente i corpi dei vinti. Senza la redenzione la vita degli esseri umani non è diversa da quella dei gitani sorpresi dalla nebbia.
Qual è la via da cui siamo venuti? Dove stiamo andando? Nessuno ha una bussola, si procede alla cieca, tornando sempre sui nostri passi, così, quando la morte verrà, avremo consumato tutte la scarpe marciando fermi sullo stesso posto». La vita è un percorso difficile, una sfida, un rischio: «La salvezza non si compie camminando al tramonto sul bagnasciuga di un mare calmo, ma arrampicandosi come capre tra i monti, tra l’arsura, le spine, con il rischio di precipitare in ogni istante».

Tags: governointervistaItaliamoralistiSilvio Berlusconitamarotempi
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