Negli anni Settanta combatteva per i falangisti libanesi di Pierre Jemajel. Da redattore di Gallimard, prestigiosa casa editrice francese, ha curato i libri di Alexis Jenni e Jonathan Littell, vincitori del premio Goncourt. Ora, Richard Millet è un scrittore di destra, cattolico, che anche per i suoi avversari «sa leggere e far lavorare gli scrittori». Da qualche giorno, ha scatenato il putiferio in Francia con un pamphlet il cui titolo potrebbe far pensare a una macabra boutade o, peggio, all’apologia di un criminale stragista: Elogio letterario di Breivik. Quindici pagine contenute in un più ampio saggio, che trattano della strage di Utoya e di Andres Breivik, il killer norvegese condannato il 24 agosto a ventuno anni di carcere per l’assassinio di settantasette persone. Il titolo è volutamente provocatorio, ma l’autore, romanziere e saggista molto apprezzato in Francia, non ha intenzione di giustificare l’autore della strage. Piuttosto individua nella strage di Utoya il segnale d’allarme proveniente dal disfacimento dell’identità europea.
Chi è Anders Breivik?, si chiede Millet. Non un pazzo che ha imbracciato le armi, un’anomalia del sistema scandinavo, altrimenti perfetto. Il suo atto ha «la perfezione formale» del «male», scrive Millet, e non è altro che la reazione di un organismo in disfacimento: «Breivik è, come tanti altri individui, giovani o no», un uomo «che assiste alla costante devalorizzazione dell’idea di nazione», alla «criminalizzazione del patriottismo» e che reagisce. Un uomo solo. «Il suo compendio», afferma Millet, riferendosi ai diari compilati dallo stragista, «rivela il naufragio dell’individuo» in un occidente dominato dal «nichilismo multiculturale» e dal relativismo. Nell’Elogio letterario di Breivik non c’è niente che giustifichi il terrorista. Però, di affermazioni dure, ce ne sono e parecchie: la strage è quello che «si meritava la Norvegia», sostiene Millet, un paese che apre le braccia alla «disperazione europea» e rinnega le proprie radici cristiane.
La strage di Utoya è perciò «sintomo della nostra decadenza». Un prodotto della perdita di identità, visibile in quell’«esotismo domestico» che si rifiuta di considerare che «il canto del muezzin» segnerà «la morte della cristianità», dunque «la fine delle nostre nazioni». Senza radici e senza futuro, governata dalla barbarie, l’Europa è destinata al suicidio. Perciò il killer norvegese è anche «il segno disperato e disperante della sottostima da parte dell’Europa dei danni del multiculturalismo. I suoi atti sono una manifestazione irrisoria dell’istinto di sopravvivenza della civiltà».
Millet non è nuovo alle invettive contro il «terrorismo antirazzista» della cultura dominante. Nel 2007, lo scrittore francese, in Il disincanto della letteratura, aveva affermato che «rarefazione, appiattimento, perdita del senso» sono le «altre definizioni del disincanto, della terribile riduzione del mondo a opera della tecnica, dell’oggetto, dell’immagine, della comunicazione, della pubblicità, della menzogna mediatica, dell’illusione televisiva, della clonazione umana, dell’eugenetica già in atto». È la «terzomondizzazione» del pensiero, della cultura, dove a imperare è quello che Millet definisce un «Nuovo Ordine Morale».