Se la persona coincide con l’idea, non esiste più
Amanda, Rachel, Pete, Kamala: nomi propri di persona. Persone che, crescendo, hanno preso libere decisioni a partire dalle condizioni in cui sono nate. Così è la vita di tutti, così ciascuno costruisce la propria identità per realizzarsi: l’America è da almeno un secolo il punto di riferimento mondiale nella creazione di modelli autorealizzativi, da quando il mito del self made man si è diffuso in tutto il globo (eccetto, naturalmente, l’Oriente).
In questa corsa verso sempre nuove mete democratiche, nell’ansia spasmodica di annientare ogni tipo di discriminazione, si sta procedendo verso una paradossale assolutizzazione della discriminazione eretta a criterio unico di valutazione e di riconoscimento della persona. La cultura progressista è appena tornata in auge e sa già di stantio, è ripetitiva e stanca. Gli idealtipi di weberiana memoria stanno progressivamente e radicalmente sostituendo i tipi reali (“è un bel tipo”, si diceva). Il sociologo tedesco aveva avvisato che si trattava di strumenti accademici e di pratiche per muoversi nelle società complesse: oggi invece gli idealtipi stanno invadendo anche le relazioni interpersonali più intime, incrementando proprio quello che vorrebbero ridurre, se non annullare: la divisione. Perché non esiste più la persona, esiste solo quello che rappresenta. E, se la si cerca, lo si fa “solo” per quello che rappresenta, per l’idea che porta o che personifica: e quando la persona coincide con l’idea, non esiste più. L’idea si divora la persona e diventa ideologia, onnivora (e pensare che siamo usciti da un secolo che ne ha dato l’immagine più cruda, mostruosa e distruttiva della storia).
L’insediamento di Biden ha documentato in maniera perfetta questo ricongiungimento con un pensiero mainstream che Trump aveva grossolanamente, violentemente e apparentemente interrotto. Non dal punto di vista del metodo, (the Donald ha usato le stesse strategie “narrative” per sostenere un’ideologia opposta). Le fake sono il filo rosso delle diverse narrazioni presidenziali, cambia solo lo stile. La vera differenza è che questo stile è quello più congeniale alla cultura che domina l’Europa (l’Oriente, ripeto, percorre altre strade, da questo punto di vista, molto più pragmatiche e quindi, in prospettiva, più preoccupanti).
Ciò che fa giustizia di Amanda Gorman, che la qualifica e la valorizza è il fatto che è una ragazza piena di energie, di progetti e di poesia, non il fatto che è una “black girl” magrolina, “discendente dagli schiavi” e cresciuta da una “single mother” (ed è lei stessa a presentarsi così!).
Ciò che fa giustizia di Rachel Levine, che la qualifica e la valorizza è (voglio immaginare) la sua competenza pediatrica e accademica, non il fatto di essere la prima viceministra alla Salute “transgender”.
Ciò che fa giustizia di Pete Buttigieg, che lo qualifica e lo valorizza è il fatto di essere stato il più giovane sindaco di una metropoli americana, non il fatto di essere il primo politico Usa “openly gay” a diventare ministro.
Ciò che fa giustizia di Kamala Harris, che la qualifica e la valorizza è il suo spirito di intraprendenza e la sua capacità decisionale, non il fatto di essere la prima “donna”, “figlia di immigrati” a diventare vicepresidente americana.
Sono stati scelti per questo?
Le persone valgono per quello che sono e vogliono prima di ogni loro rappresentazione o autorappresentazione: questa pandemia simbolica rischia di rendere impalpabile chiunque, tutti sempre più soli nel cercare il riconoscimento dalla cultura ufficiale, ansiosi di occupare l’idealtipo disponibile e incensato. L’unica compagnia in questa tragica solitudine sembra essere quella vivace e colorata dei nuovi menestrelli che accorrono immancabilmente a ogni incoronazione di re, quelle star internazionali di cinema, tv, discografia che a fatica si distinguono dai cortigiani di altri tempi.
Se questo possa essere il vento nuovo della riconciliazione è fortemente improbabile. Quando la persona vale per un suo attributo, sarà condannata a discriminare chi non è discriminato, usando gli stili imposti dal potere di turno.
Una condanna che non favorirà certamente la cultura dell’incontro.
Foto Ansa
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